Era il 31 gennaio 1969, 51 anni fa oggi, e l’Italia scopriva ulteriormente (ma nel modo peggiore rispetto al precedente e pur gravissimo scandalo dei “balletti verdi”) l’esistenza della comunità omosessuale, vittima innocente e inconsapevole dell’eversione fascista. Ma andiamo per gradi.
Il “modo peggiore” fu quello che passò prima alla cronaca e poi alla storia come lo scandalo Lavorini, al centro dello specifico libro postumo di Sandro Provvisionato uscito lo scorso anno.
Era, appunto, il 31 gennaio 1969 quando da Viareggio scompare nel nulla il piccolo Ermanno Lavorini di soli 12 anni. Verrà poi trovato morto, tre mesi dopo, sepolto in una pineta a Marina di Vecchiano in quella che era una zona molto frequentata da omosessuali “in cerca”. Ed è così che nasce la “pista omosessuale”, fra le accuse e le insinuazioni senza prove sventolate da tv e giornali. Tutti, con la sola eccezione di Marco Nozza, cronista de Il Giorno.
Ed ecco che, quando il clima è sufficientemente pesante, compaiono dal nulla il 16enne Marco Baldisseri e il quasi 20enne Rodolfo Della Latta, che accusano senza tanti giri di parole un certo Adolfo Meciani di aver ucciso il piccolo Lavorini. Ad aggravare il quadro accusatorio Pietro Vangioni, leader del locale Fronte monarchico giovanile.
Raccontano pure delle «feste di anormali» alle quali partecipava Meciani. E dissero che durante una di quelle feste, quella del 31 gennaio, il piccolo Lavorini era stato drogato, stuprato e infine ammazzato.
La vita di Adolfo Meciani finì. Rischiò il pubblico linciaggio due volte. I giornali raccontarono al mondo della sua doppia vita di «anormale» e sposato. Finì in carcere e dopo pochi giorni si ammazzò, non reggendo più il peso dell’outing e delle accuse infamanti. Si ammazzò il 24 maggio 1969. Da innocente.
Ci vollero otto anni e una sentenza della Cassazione che ne stabilì definitivamente la totale estraneità sui fatti. Ma ormai il danno era fatto. Per l’opinione pubblica lui era il colpevole e la comunità omosessuale era un ritrovo di invertiti e pervertiti dediti al sequestro, sturpo e uccisione di bambini.
Ma quindi chi fu a rapire ed ammazzare il piccolo Lavorini? Semplice: i due angioletti che avevano accusato Meciani e che tanto angioletti non erano. Uno era componente del Fronte giovanile Monarchico di Viareggio, l’altro anche nonché militante dell’Msi. E, secondo la sentenza definitiva di condanna emessa dalla Cassazione nel 1977, il rapimento di Lavorini sarebbe dovuto servire per ottenere un cospicuo riscatto col quale finanziare i loro piani eversivi.
Fallito il loro piano si sbarazzarono del bambino e puntarono il dito contro la facile preda: gli invertiti, gli anormali, i pederasti. Accusando di essere tali anche i socialisti Renato Berchielli, sindaco di Viareggio, e Ferruccio Martinotti, presidente dell’Azienda autonoma della Riviera della Versilia, che furono costretti a dimettersi. Coinvolsero anche Giuseppe Zacconi, figlio del celebre attore Ermete Zacconi, che finì così nel tritacarne mediatico e morì d’infarto nel 1970.
Gli accusatori trovarono l’appoggio della Chiesa ma soprattutto de Il Borghese, che usarono la storia per attaccare Pci e Psi (nonostante entrambi i partiti non avessero in buona considerazione gli “invertiti”, specie il Pci). Mentre Mino Monicelli, su L’Espresso del 4 maggio 1969, arrivava a lanciare l’appello perché si levasse via «lo sporco dalla città impestata dall’incubo di quell’immondo imbroglio di omosessuali che si chiama ‘caso’ Lavorini».
Ecco come l’Italia venne a conoscenza dell’esistenza della comunità Lgbti. Quando, cioè, la comunità fu vittima e capro espiatorio dell’eversione fascista, che trovò appoggio nella Chiesa, nei media e nelle forze dell’ordine. E, a ben vedere, non è poi cambiato proprio tanto.