Dichiarare pubblicamente che non si desidera assumere persone omosessuali è contrario al diritto dell’Unione europea. A sentenziarlo oggi a Lussemburgo la Corte di giustizia dell’Unione europea, cui la Cassazione italiana si era rivolta in via pregiudiziale in merito al ricorso presentato dall’avvocato Carlo Taormina, condannato in primo e secondo grado per affermazioni discriminatorie in materia di lavoro sulla base dell’orientamento sessuale.
A intentare causa nel 2014 contro il noto penalista, ex parlamentare di Forza Italia e già sottosegretario all’Interno nel Governo Berlusconi II l’associazione Avvocatura per i diritti Lgbti – Rete Lenford, dopo che quegli, il 16 ottobre 2013, nel corso di un’intervista a La Zanzara aveva fra l’altro dichiarato che non avrebbe mai assunto gay nel suo studio considerandoli contro natura. «Faccio una cernita adeguata – ebbe a dire – in modo che questo non accada».
Il 6 agosto 2014 Taormina veniva condannato dal Tribunale di Bergamo per discriminazione sul lavoro e a risarcire di 10.000 euro Rete Lenford. Sentenza, questa, confermata il 23 gennaio 2015 dalla Corte d’Appello di Brescia.
Il penalista aveva allora fatto ricorso alla Suprema Corte in nome del diritto alla libertà di espressione e sulla base della considerazione che le sue osservazioni erano generali e non riguardavano alcuna assunzione in corso.
Ma, come ricordato nel comunicato odierno di Rete Lenford, «la Corte di Cassazione, a cui il soccombente ha presentato ricorso, con ordinanza depositata il 20.07.2018, aveva sospeso il procedimento, ritenendo pregiudiziale l’interpretazione del diritto dell’Unione europea da parte della Corte di giustizia. Il rinvio riguardava due punti: 1) se Avvocatura per il Diritti Lgbti – Rete Lenford, in quanto associazione di avvocate e avvocati possa essere considerata ente rappresentativo di interessi collettivi, tale da essere abilitata ad agire in giudizio per vedere tutelati tali interessi; 2) se possa ritenersi sussistente la violazione della direttiva in materia di parità di trattamento in materia di lavoro, quando le dichiarazioni non facciano riferimento ad una procedura di assunzione effettivamente esistente. Infatti, nel caso per cui è causa, l’intervistato aveva dichiarato che mai avrebbe assunto persone omosessuali, ma non aveva in corso una procedura di assunzione»
La questione sottoposta dalla Corte di cassazione italiana alla Corte di giustizia europea riguardava, in particolare, l’interpretazione della direttiva Ue 78/2000 (recepita in Italia dal decreto legislativo 216/2013), che, nota comunemente come “direttiva antidiscriminazione”, tratta specificamente, all’articolo 3, paragrafo 1, di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro».
Per la Corte una tale nozione deve essere interpretata nel senso che in essa «rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico».
Inoltre per i giudici della Corte di Lussemburgo «la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa».
Per quanto riguarda la libertà d’espressione la Corte ha ricordato che essa «non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, a condizione che queste siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità, vale a dire che esse siano necessarie e rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’Unione o all’esigenza di tutela dei diritti e delle libertà altrui».
Adesso il caso torna alla Cassazione italiana con esito che è facilmente prevedibile.