A un anno dall’approvazione definitiva della legge n. 76 del 2016, che regolamenta le unioni civili e le convivenze di fatto, è il momento dei primi bilanci e delle prime analisi. Nei giorni scorsi hanno fatto molto discutere i numeri delle celebrazioni delle unioni civili. La cifra stimata di 2800 coppie unite, che però non conteggia i procedimenti di «conversione» dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, è stata oggetto di una forte polemica con articoli di giornale e dichiarazioni di esponenti di spicco che denunciavano il «flop» del nuovo istituto.
Francamente trovo deprimente questo livello di dibattito su una tematica di tale importanza. Il valore di una legge che riconosce i diritti non può essere certamente misurato in base al suo utilizzo da parte dei destinatari, essendo la stessa espressione del grado di sviluppo e di evoluzione di un modello sociale, culturale e giuridico. Il diritto a essere liberi e non discriminati non può essere sottoposto a un giudizio quantitativo sulla base di quante persone lo esercitano effettivamente, come è ben comprensibile.
La legge sulle unioni civili riconosce il diritto, prima negato, alle persone dello stesso sesso di creare dei legami giuridici sostanzialmente equiparabili a quelli riconosciuti dall’istituto del matrimonio. Questa equiparazione è espressa all’art. 1, comma 20 dello stesso testo di legge, in cui si rinvia alle disposizioni tutte che si riferiscono al matrimonio e ai coniugi, siano esse contenute in leggi che in atti aventi forza di legge, regolamenti, atti amministrativi o contratti collettivi. L’unica eccezione è per tutte quelle non richiamate dalla stessa legge come quelle relative alla filiazione e, in particolare, l’adozione, salvo, per questo ultimo caso dichiarare “fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Espressione questa, che per il carico di ambiguità contenuta demanda al potere giurisdizionale, come poi accaduto, la facoltà di interpretazione per i casi concreti.
Ed è proprio sulla filiazione all’interno delle coppie omosessuali che si sono consumate le più aspre battaglie nel corso del dibattito formativo della legge, la cui approvazione è stata possibile solo in seguito allo stralcio della cosiddetta stepchild adoption, ovvero la possibilità di adottare il figlio del proprio partner. È importante allora trovare una strada interpretativa che superi le posizioni prettamente ideologiche sul punto e trovi un fondamento giuridico alle istanze che sorgono dalla necessità, anche per le coppie di persone che hanno lo stesso sesso, di riconoscimento di un rapporto di filiazione, spesso già di fatto esistente.
Ciò che è certo è che non esiste nel nostro ordinamento un “diritto alla genitorialità” da parte dei soggetti che creano una coppia, indipendentemente dal fatto che siano un uomo e una donna o due donne o due uomini , e che ciò non solo non è possibile, ma sarebbe anche pericoloso. Se dovessimo riconoscere i legami che hanno come elemento distintivo la filiazione si arriverebbe al paradosso di disconoscerne il valore e l’esistenza laddove tale diritto non fosse esercitato. Ciò che invece permette di dare una risposta adeguata e corretta è un ribaltamento di questa impostazione che ha erroneamente sottinteso tutto il dibattito.
Si deve perciò mettere al centro non già un diritto non configurabile alla genitorialità della coppia, ma semmai il diritto del minore a uno stato giuridico di figlio che si è costruito nel corso del tempo dentro un nucleo familiare, quale che esso sia, anche laddove non vi sia un rapporto genetico tra le parti. Dunque il desiderio di genitorialità da parte della coppia, non già il diritto, viene soddisfatto dalla previsione normativa per cui è lo stesso minore che vede rispettato il proprio diritto di avere una famiglia e che è prevalente su qualunque altro tipo di valutazione meta-giuridica da parte degli organi decidenti.
La posizione trova una solida base normativa anche nella recente legge di riforma sulla filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219) che, abolendo l’odiosa e ingiusta distinzione tra figli legittimi, nati nel matrimonio, e figli naturali, tutti gli altri, crea un univoco e solo statuto giuridico del minore. Inoltre, ciò che è di estrema importanza è che si svincola totalmente la posizione del figlio dal legame che lega tra di loro i genitori. Attraverso questa strada si può affermare, anche in questo ambito ed è il ragionamento seguito poi dalle Corti superiori nelle varie pronunce, che quesi nuovi diritti del minore devono sempre trovare espressione quale che sia la famiglia di riferimento e dentro quel nucleo familiare in cui si sono sviluppati gli affetti dello stesso minore. È il legame affettivo che genera quello giuridico e che diventa la base dell’affermazione di questi nuovi diritti tra cui vanno menzionati quelli di assistenza morale, ad essere amati e, molto importante, a crescere in famiglia e ad avere i rapporti significativi con i parenti.
Ai progressi legislativi citati si aggiunge oggi anche una rinnovata maturità sociale sulle tematiche della famiglia e della filiazione. La famiglia dei nostri giorni assomiglia sempre meno a quella disegnata dall’art. 29 della Costituzione, avvicinandosi progressivamente all’immagine delle formazioni sociali dell’art. 2 della stessa carta costituzionale, come richiamato dalla legge sulle unioni civili, e la società è ben cosciente di questa trasformazione. Gli avanzamenti legislativi e sociali ci permettono dunque di poter aprire finalmente una seria riflessione su una riforma complessiva della legge sulle adozioni, che in tante occasioni ha dimostrato di essere gravemente carente.
Questa riforma dovrebbe innanzitutto risolvere le problematiche e gli impedimenti, non solo di ordine legislativo, che hanno frenato il pieno dispiegarsi delle potenzialità di tutta questa normativa, sottoponendone il ricorso ad una scelta basata prevalentemente su criteri di carattere economico. La strada, supportata dal ragionamento giuridico e storico delineato, porta naturalmente a una pressione della possibilità di prevedere l’adozione del figlio biologico del partner per tutti, come già avvenuto in numerose sentenze dei tribunali e della Cassazione, ma, dall’altra, non potrà ignorare l’urgenza di aprire l’adozione ordinaria sia alle coppie formate da persone dello stesso sesso sia alle persone singole, ponendo fine ad una lunga e insopportabile discriminazione che ci trasciniamo da fin troppo tempo.