La stagione dei Pride è annualmente preceduta e accompagnata da polemiche. Le marce dell’orgoglio Lgbti sono dispregiativamente liquidate come carnevalate o baracconate non solo da esponenti di raggruppamenti reazionari o vip sulla via del tramonto ma anche da persone della collettività Lgbti.
Mai come quest’anno si sono succeduti e amplificati tramite i social appelli alla sobrietà e alla compostezza in nome d’un’ambigua normalità e di rispetto del sentire altrui. Un’ondata, insomma, di moralismo perbenista, che ha indotto Porpora Marcasciano a parlare di «omologazione imperante che sta ricastigando il corpo, la sessualità, il desiderio».
Gaynews è tornato sul tema con Felix Cossolo, figura di spicco del movimento Lgbti italiano e ideatore della storica libreria Babele
Ogni anno in occasione dei Pride si ripropone la questione di come sfilare. Quest’anno la querelle si è riproposta a seguito dell’appello alla sobrietà lanciato durante il Basilicata Pride. Che cosa pensi di inviti del genere?
È una querelle di lunga data. Se ne discuteva già negli anni ’70. Nel 1975 partecipai a un festival del proletariato giovanile che era stato organizzato a Licola, nei pressi di Napoli, dalla sinistra extraparlamentare. Nel movimento omosessuale c’erano allora due tendenze: quella del Fuori! (fondato da Angelo Pezzana e federato al Partito Radicale) e quella dei C.O.M. (Collettivi omosessuali milanesi, il cui leader indiscusso era Mario Mieli). In quella occasione i primi si presentarono come dei militanti seriosi. I secondi scioccarono e provocarono i partecipanti al raduno con il trucco, le parrucche e gli abiti femminili. Indubbiamente i ‘maschi rivoluzionari’ furono messi in discussione dall’ala creativa del movimento. Questa scelta creò contenstazioni ma fu senza dubbi vincente: lo stand dei C.O.M era sempre affollato (ma lo erano anche le loro tende), vennero vendute molte riviste e parecchi ragazzi si avvicinarono al movimento. Furono così messe in crisi molte delle loro certezze rivoluzionarie.
Alla base di tali reazioni c’è, secondo te, una sorta di non piena accettazione di sé stessi?
Mi sembra che ognuno di noi faccia delle scelte. Il movimento negli anni ‘70 riteneva la riscoperta del proprio femminile una priorità. Ci chiamavamo al femminile. E non mancavano quasi mai una riga di rimmel, gli orecchini vistosi, i tacchi alti. Non per tutti, certo, ma questo non significa che i ‘maschietti’ non si accettassero. L’importante, ieri come oggi, resta il rispetto del modo di porsi dell’altro.
Hai già accennato a quanto successo durante il festival di Licola. Eppure, nel parlare di manifestazioni antecedenti ai Pride qualcuno continua a richiamarsi quanto accadeva negli anni ’70 per dire che non si scendeva in piazza con piume di struzzo o culi all’aria. È veritiera una tale lettura secondo una memoria storica del movimento come Felix Cossolo?
No, non è affatto veritiera. Ai campeggi gay la metà di noi si travestiva. Io, ad esempio, nel 1984 mi ‘sposai’ al campeggio di Porto S. Elpidio e mia ‘moglie’ Marco Sanna si presentò alla cerimonia con un bellissimo abito da sposa. Al Cassero, ad esempio, c’era la Cesarina (Stefano Casagrande); a Roma la Messalina e la Serafina; a Napoli la Seggiara, la Curcione e così via.
Dopo la legge sulle unioni civili qual è a tua parere la condizione in cui versa il movimento Lgbti italiano? Non noti una sorta di appiattimento e omologazione al riguardo?
Sinceramente seguo molto meno le vicende del movimento. Non per mancanza di interesse ma perchè sono impegnato con i locali che mi ritrovo nuovamente a gestire. Certo, dovendo fare un paragone rispetto a 30-40 anni fa, non posso non dire che allora eravamo fortemente motivate, eravamo delle ‘pazze’, poche ma buone. Nessuno di noi aveva ambizioni politiche o di carriera nel movimento. Eravamo tutti dei volontari. Io, ad esempio, in oltre 40 anni di attività non ho mai chiesto e tanto meno percepito un centesimo da nessuna istituzione. E di iniziative ne ho organizzate (dai giornali ai campeggi, dalle librerie ai club) ma sempre pagando di persona. Non ho mai avuto un contributo. Anzi, noi militanti abbiamo sempre finanziato di tasca nostra.
Se dovessi pensare a una figura di attivista scomparso, chi citeresti nel riproporne come necessario l’esempio da seguire per i nostri tempi?
A me piaceva molto Marco Sanna (mia moglie) di Aprilia. So che a Roma gli hanno anche dedicato una fondazione. Poi ammiravo moltissimo Massimo Consoli, con cui ho collaborato per tanti anni. Stimavo inoltre Dario Bellezza e Giovanni Forti de L’Espresso. Ma penso che la nuova generazione non ne abbia sentito mai parlare. Naturalmente Mario Mieli è stato il nostro teorico oltre che grande amico.
C’è un messaggio particolare che vuoi lasciare ai lettori e alle lettrici di Gaynews e, in generale, a quanti si preparano a partecipare ai prossimi Pride?
Sì, certo. Mi piacerebbe che ci fossero meno tensioni, meno prime donne e più collaborazione. Poi portiamo al Pride le nostre famiglie, i nostri amici e divertiamoci: il Pride è soprattutto una festa.