Lo Stato Interiore è il titolo con cui, quest’anno, la manifestazione dello Short Theatre si è presentata al pubblico romano, nel suggestivo spazio della Pelanda. Un titolo che ci esorta alla cura del nostro benessere interiore attraverso l’arte e il teatro.
E così, all’interno della manifestazione, è stato possibile assistere allo spettacolo di una delle compagnie teatrali più innovatrici e rivoluzionarie che abbiamo in Italia: i Motus che festeggiano 25 anni di attività.
Compagnia nomade e indipendente, in costante movimento tra Paesi, momenti storici e discipline, i Motus, fondati da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, sono da sempre animati dalla necessità di confrontarsi con temi, conflitti e ferite dell’attualità e fondono scenicamente arte e impegno civile attraversando immaginari che hanno riattivato le visioni di alcuni tra i più scomodi “poeti” della contemporaneità.
L’allestimento andato in scena alla Pelanda è ÜBER RAFFICHE (nude expanded version), un progetto potente e coinvolgente che ha origine nella riscrittura di Splendid’s di Jean Genet ad opera di Magdalena Barile e Luca Scarlini. Il risultato, decisamente geniale, è esaltato dalla prova straordinaria delle nove attrici in scena, nove virago guidate dall’attrice icona del gruppo Silvia Calderoni: una vera e propria rivoluzione, questa versione di Splendid’s al femminile, visto che tale intenzione è negata dalle regole stesse del copyright dell’opera di Genet.
Da questa impossibilità nasce Raffiche, o per meglio dire “Raf-fiche”, una rappresentazione declinata sul tema dell’identità e della rivolta, della locura, ovvero del rifiuto di aderire alla semplicistica e ossequiosa divisione della realtà in maschile e femminile. Lo spettacolo racconta, infatti, le vicende di un gruppo di erinni, di attiviste che compiono azioni dimostrative e di resistenza al regime di dominio e di controllo eterosociale.
Assediate da media e forze speciali, assistite da un agente di polizia passato dalla loro parte, le Raffiche danno vita a un conflitto straziante che, da esterno (la critica al biopotere), diventa interiore e, secondo la più classica delle contrapposizioni tra massimalisti e minimalisti, le attiviste si troveranno divise tra chi vorrà sfruttare il momento di massima esposizione mediatica, rischiando la propria vita nello scontro armato, e chi vorrà invece fermarsi, pensando di potersi arrendere senza capitolare, farsi disarmare senza però sottomettersi, e così continuare a vivere per costruire a piccoli passi un mondo migliore, alla ricerca di quella omeostasi che in fondo caratterizza tutti i veri nichilisti.
Una critica chiara e disarmante allo stesso tempo – quella dei Motus – che risveglia le nostre anime troppo spesso mitridatizzate creando empatia con lo spettatore e che pone sotto i riflettori le contraddizioni amare della società in cui nasciamo, cresciamo e viviamo, risultandone troppe volte castrati da regole e da un malinteso senso dell’educazione. Saranno proprio le raffiche di parole e colpi presenti nello spettacolo a far luce su un sistema di potere e ordine distopici, che viene gradualmente smascherato, smontato e rimontato al di là dell’immaginario del terrore.
La violenza e la poesia si sfidano allora in duello mortale, in cui il tradimento, il travestitismo, l’allelomorfia, la sessualità, la violenza fisica e verbale, l’inesorabile necessità della morte danzano un valzer estenuante: tutto questo in un tempo denso che riconcilia con la vita che viviamo e con quella che, a volte, avre mmo voluto vivere.
L’allestimento mira ad amplificare l’empatia con lo spettatore: niente pareti, ma solo alcuni arredi eleganti, niente fuori-scena, ma tutto a vista, nudo: al centro solo i corpi delle attrici, in un formato di messinscena a loop senza inizio e senza fine che dura 3 ore (o forse più), in cui il pubblico è libero di andare e venire e in cui la messinscena si ripete continuamente. Un estenuato ripetersi di raffiche di parole (e ironiche micro-danze) per non arrendersi, proprio come una delle protagoniste, Rafale, che, anziché tentare il suicidio e rinunciare alla lotta (come avviene nel testo di Genet) non getta le armi e continua a sparare ancora, perché le raffiche in arte non hanno niente a che spartire col terrorismo e col terrore del mondo. Semmai sono un modo per attaccarlo, per farlo smottare, per smascherarne il fondo grottesco e vigliacco, per liberarci dalla paura e per ricordarci, come affermava Paz, che “Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa”.