Arcobaleno, tacchi a spillo, una persona che invita a una festa chiamata What is love. E’ così che nei giorni scorsi ci eravamo imbattuti nel video promozionale dell’evento che si è svolto venerdì scorso in Sapienza, organizzato da diverse realtà studentesche e sociali.
E così, io e un paio di amici abbiamo deciso di andare.
“Vivi con noi una notte libera, senza distinzioni, senza etichette, in cui scatenarti fino alle luci dell’alba tra le mura della Facoltà di Lettere, che al nostro ritmo di danza si tingeranno di mille colori”. Questa la descrizione su Facebook
Arriviamo e troviamo l’ingresso della Facoltà di Lettere e Filosofia di Piazza Aldo Moro illuminato con i colori arcobaleno. Entriamo e iniziamo a vedere un vero e proprio mosaico. Diversi modi di vestire, diversi look, diversi modi di fare, diversi modi di guardarsi e di sorridersi. Diversità ovunque, come raramente se ne vede nello stesso luogo. Lo spazio è l’atrio della Facoltà, riempito oltre le aspettative da alcune centinaia di persone.
Fingendomi un po’ ‘neofita’ chiedo a un ragazzo: “Ma questa è una festa gay?”
“Beh mi sembra sia una festa per tutti. Io sono etero, lui è gay – indicando un amico a fianco – ma qui importa poco“.
Quando si indicano le feste in cui si ritrova la comunità lgbti, comunemente si usa l’espressione “feste o serate gay”. Anche se è più corretto scrivere “feste gayfriendly” o lgbti, perché si tratta comunque di eventi aperti al pubblico e non di riserve indiane, nel dialogare con i presenti abbiamo continuato a parlare di “serate gay”
“Andiamo spesso alle serate del sabato e del venerdì, oggi siamo venuti qui perché è la prima volta che all’Università si questo tipo di serata”. Questa la risposta di Federico, un ragazzo che è venuto alla festa con il suo compagno a cui abbiamo chiesto se frequentava anche le serate gay.
“Un altro ragazzo poco fa ci ha detto che non va nei locali gay perché non vuole ‘ghettizarsi’, rispondiamo.
“Provate a rimorchiare un ragazzo, se siete ragazzi, alla festa del liceo, oppure a fare lo stesso con una ragazza se siete ragazze. Difficile. Quasi impossibile. Le serate gay storicamente esistono per questo. Anche se adesso per fortuna le discriminazioni sono relativamente meno rispetto a prima. E comunque sono eventi rivolti a tutti, basta avere una mentalità aperta”
Tra la gente troviamo anche un ragazzo di 39 anni, intento a scherzare con degli amici. “Quando andavo all’Università io, una situazione del genere era fantascienza – ci dice Piero. Eri gay solo in certi luoghi, ben circoscritti, dove entravano a volte quelli che gli americani definiscono gli allies, gli alleati. Adesso qui sto prendendo in giro un ragazzo etero appena conosciuto perché millanta di andare con tante ragazze dicendo che io invece ho più ragazzi di lui. Una scena del genere, a 20 anni, era come immaginare un volo intergalattico.
Ci spostiamo ancora un po’, tra la musica e l’impianto piazzati in fondo all’atrio e scorgiamo una ragazza che balla a centro pista insieme ad altre due persone.
“Sono qui con la mia ragazza e un’amica. Considerando che ho finito di studiare due anni fa, torno volentieri qui in Sapienza. Devo dire che si respira una bella aria. Non è una festa gay, ma non è nemmeno una festa universitaria come le altre. E’ una cosa nuova. Forse il futuro delle “serate gay” è che quella parolina ‘gay’ diventi rottura degli schemi per tutti.
“Insomma – chiediamo infine a Riccardo, che fa parte dell’organizzazione – avete fatto una festa gay senza chiamarla gay?”
“What is love è una festa gay, una festa antifascista, una festa antisessista. È una festa in cui tutte e tutti possono ritrovare sé stesse e andare oltre i ruoli che vengono loro imposti dalla società! È una festa gay nel senso più bello del termine gay: non solo un target di persone di riferimento, ma soprattutto un modo di vivere la vita, senza confini, favoloso, libero, senza costrizioni…tutte e tutti possono venire alla festa e divertirsi, perché è una festa di tutte e tutti. Uno spazio sicuro, uno spazio libero, uno spazio irriverente”.
Mentre completavo questo articolo, in questi giorni è nata la querelle intorno alle frasi pronunciate da Stefano Gabbana: “basta con l’etichetta gay, io sono un uomo”. Gabbana è stato seguito a ruota persino da Ozpetek, che ha detto di essere infastidito quando chiamano il suo compagno “marito”.
Ci mancherebbe che non sei un uomo caro Gabbana. Però ci piacerebbe sapere cosa ne pensi di questa nuova generazione, che al Pride come a queste feste inizia socializzare, a conoscersi e a fare l’amore dicendo con una risata “io sono gay, etero, bisex” o semplicemente “mi va di andare con te”. Senza conoscere alcuna vergogna. Perché la vera differenza è che la frase che scriverai su quelle magliette, I’m a man, not a gay, trasuda imbarazzo, vergogna e machismo. Forse la migliore risposta te l’hanno già data loro: non serve mettere in soffitta la parola “gay”, bensì riappropriarsi del suo vero significato di liberazione offrendolo a tutti e tutte. Tradotto: il famoso tacco a spillo di Silvia Rivera non significa che “i gay fanno le donne”. Significa che rompono gli schemi di genere, ironizzano sugli stereotipi e si sentono uomini ognuno a modo proprio (o al di là del genere assegnato, nel caso delle persone trans). Significa una rivoluzione, insomma, perché grazie a tutto questo anche gli eterosessuali stanno uscendo dalla gabbia del maschio per eccellenza che non deve mai chiedere, non deve mai piangere e così via.
Di certo resta vero un fatto: senza quella storia di orgoglio e lotta che tu chiami “etichetta”, quello che vediamo oggi non ci sarebbe mai stato.