Il suo nome è legato quasi indissolubilmente a quello di altri. Le sue parole e le sue emozioni hanno dato voce ad altre voci. La prossima canzone del cuore, che racconterà un amore, la sua nascita o la sua fine, che farà scendere una lacrima o storcere la bocca con un sorriso, quasi sicuramente l’avrà partorita lui. Vincenzo Incenzo è uno degli autori di canzoni italiane più prolifici e con le collaborazioni artistiche tra i più alti livelli. Basta fare qualche nome: Patty Pravo, Pfm, Lucio Dalla, Venditti, Zarrillo e poi Renato Zero al quale lo lega una collaborazione ormai ventennale.
Una delle sue creature più amate da un pubblico vastissimo e quanto mai eterogeneo, fenomeno più unico che raro nel nostro Paese, è il musical Romeo e Giulietta ama e cambia il mondo che continua ad andare in scena anche quest’anno, dal debutto nel 2013.
Negli anni, oltre ai fiumi di parole travasate nei testi delle canzoni, nei libri, ha collezionato molti premi ritirati con lo stesso stupore e meraviglia con cui un bambino vede per la prima volta un dolce alla vetrina di una pasticceria.
L’ultima fatica che lo vede ancora una volta al fianco di Renato Zero come co-sceneggiatore e co-regista è il film Zerovskij – solo per amore. Seduti al tavolo di un bar, sorseggiando un succo di frutta, Vincenzo Incenzo racconta il suo lavoro, i suoi progetti e tra una citazione di Dante e una riflessione su Shakespeare dice anche la sua sui diritti e la libertà di amore per le persone lgbti.
Come ti sei approcciato all’ultimo lavoro di Zero?
Tutto è cominciato in maniera molto informale. È un lavoro che aveva sedimentato nel tempo, per cui ci siamo arrivati preparati. Quando abbiamo iniziato a parlare di Zerovskij avevamo già tracciato un percorso che ci avrebbe portato a uno spettacolo che prevedesse canzoni, ma anche una ricca parte di prosa, un’orchestra, attori. L’idea era creare qualcosa in cui Renato non fosse l’unico protagonista.
Abbiamo costruito passo dopo passo la storia, partendo dall’umanizzazione dei sentimenti, e non volendo fare il remake di qualcosa abbiamo inventato una storia nuova, con dei personaggi nuovi.
Quando abbiamo pensato alla location ci è venuto subito in mente la stazione, luogo culto di qualunque partenza, arrivo, abbandono, ritrovamento, aspettativa, speranza, illusione. La stazione, per Renato che non voleva cimentarsi con una vera e propria cronistoria, era una situazione in cui tutto era compresente: le vite passavano senza bisogno di uno sviluppo narrativo, anche se alla fine c’è stato perché Renato ha iniziato a pensare a tutti i personaggi e all’asse verticale: Dio – Adamo ed Eva.
Dell’idea iniziale è rimasto un progetto ambizioso con più di 100 persone sul palco, una scena ricca, una band che si aggiunge all’orchestra con la possibilità di switchare dal classico al pop continuamente. Io ho costruito i monologhi e man mano è stato più facile perché abbiamo cominciato a concepire una storia.
Renato poi ha iniziato a far gravitare Adamo ed Eva come viaggiatori atemporali, di oggi così come quelli mitologici, in questa fantomatica stazione con i problemi attuali: le tasse da pagare, gli abusi a cui ancora la donna purtroppo è costretta a sottostare e poi ha messo anche questo figlio di nessuno, questo NN, che è un po’ il loro figlio rifiutato, una figura che rappresenta tutti gli abbandoni e le persone emarginate. Una sorta di icona che possa comprenderli e abbracciarli tutti. Infine Dio, che dice “sono un uomo mancato”, ammette i suoi errori e pensa addirittura a un secondo progetto avendo fallito il primo.
Qual è la parte che senti tua?
Nei monologhi c’è tanto del mio. Alcune parti del Tempo sono mutuate da un romanzo che ho scritto Romeo e Giulietta nel duemilaniente, dove si racconta l’omologazione, la resa senza violenza a un sistema che ci ha tolto tutto: la libertà, il tempo, la sensibilità visiva e uditiva, relegandoci a caselle di un mosaico che giostra secondo gli imperativi produttivi di questo sistema. Tutta quella parte, digerita nel romanzo, ritorna in una veste nuova.
Il fatto che Renato mi abbia dato tanta fiducia di scrivere liberamente, senza una supervisione e accettando incondizionatamente questi monologhi – forti di un rapporto che va in automatico – mi ha fatto lasciare andare parecchio. Ad esempio, con il monologo di NN con la sua eutanasia della morte, il confronto di odio-amore in una veste completamente ribaltata dove l’amore è quello sconfitto e l’odio vince, sovvertendo un cliché, un plot narrativo universale.
Più che in tante canzoni, ho avuto la possibilità di mettere me stesso.
Hai mai pensato di scrivere una canzone che parli di una storia d’amore di persone omosessuali?
Ci sono canzoni che lo hanno già fatto anche se in maniera molto filtrata, con una metafora sull’impossibilità, o meglio difficoltà, molte volte di accettare una condizione, dichiarare un amore, sentirsi legittimato a una storia d’amore così come la si vuole vivere. Uso spesso la metafora perché credo che la canzone debba operare un salto, un’astrazione dalla realtà, liricizzarla, ma mantenendo tutto il disagio e la bellezza di una condizione.
Nella canzone L’elefante e la farfalla (cantata da Michele Zarrillo, ndr) si racconta la differenza. Sentirsi prigionieri di un retaggio culturale e familiare che indirizza le scelte è una cosa che mi affascina molto raccontare, perché la vivo personalmente con situazioni familiari. Questo tema c’è ancora di più in Ama e cambia il mondo, quando si dice con parole molto precise: “Ama senza confine, ama non c’è peccato”. Secondo me quella di Romeo e Giulietta è una storia che può essere metafora di tante altre, anche di persone dello stesso sesso. In fondo è la storia di due persone che attraverso l’amore cercano il loro posto nel mondo, al di là di qualunque condizionamento, di retaggi, sovvertendo i loro codici, la loro cultura, vanno contro le loro famiglie. Quale metafora più attuale di questa? Penso che Shakespeare abbia pensato in maniera cosciente a questa possibilità e al valore aggiunto di una storia come questa. In Romeo e Giulietta i ruoli di genere vengono poi scavalcati. Giulietta è di fatto l’uomo, per quel periodo, prendendo in mano la situazione. Lei per prima va contro le regole della famiglia a costo di morire.
C’è il rischio di banalizzazione nel raccontare una storia d’amore Lgbti?
L’unica paura che ho, ogni volta che sento parlare i grandi movimenti su questo argomento, è di irretire il mondo omosessuale in una categoria economica. Il rischio è che diventino strumento di un percorso che è prima economico e poi di valore. Un pericolo che c’è ogni volta che si crea ghettizzazione. Sono poche le canzoni che ho sentito sull’argomento e hanno dato un contributo serio alla causa. Il più delle volte hanno colorito in maniera insoddisfacente un tema che non ha bisogno di essere difeso. Già nel concetto di tollerare c’è per me un insulto. È tempo di sdoganare definitivamente il punto di osservazione di chi parla, di chi ascolta altrimenti siamo sempre agli Uomini sessuali di Checco Zalone che ha avuto l’intelligenza, secondo me, in quella canzone di mettere a fuoco un modo di pensare paternalistico, della carezza, che francamente mi sembra offensivo.
Oggi c’è voglia di essere rappresentati il più possibile e nella propria “banale quotidianità”? Tu che ne pensi?
Mi chiedo: oggi gli omosessuali hanno bisogno di essere difesi? Evidentemente ancora sì, perché la libertà resta un fatto non previsto o non automatica. Io lavoro da vent’anni con persone omosessuali e non mi sono mai accorto di persone diverse da me: da Lucio Dalla a Peparini e altri ancora, tutte persone serenamente omosessuali, Arias (Alfredo Arias regista, ndr) quando abbiamo fatto Dracula, così come tanti attori che sono in Zerovskji. Mi fa piacere che ci sia questa serenità in tante persone oggi. Perché non dovrebbe essere così, insomma? Sono convinto che il bisogno di questa costante rappresentazione venga dal volersi sentire in una moltitudine, costruirsi una massa anche quando non c’è.
Chi è omosessuale dovrebbe dirlo?
Bisognerebbe vedere qual è la forma di gratifica che scatta in ognuno dopo aver fatto coming out. Io non sento la necessità di saperlo e lo dico da persona che vive “il problema”, nell’accezione nobile del termine, avendo amici e parenti. Se può essere un fatto che aiuta… Penso a tante persone che conosco che non vivono bene la propria omosessualità, non l’accettano. Credo che ci debba essere la libertà di dirlo o meno, tutto qui. Se libertà ci deve essere, libertà ci sia. In tutto. Anche perché a volte non si è solo omosessuali, si è bisessuali, trisessuali e quindi è un discorso complesso. Ciascuno deve vivere come sente. Io non dichiaro di essere eterosessuale e se qualcuno pensa che sia omosessuale non mi infastidisce. Sono stato forse fortunato a vivere in una famiglia molto aperta. Mi rendo conto però che in realtà provinciali, nei paesi, ci può essere una condanna, una sorta di prevaricazione.
Nei tuoi progetti futuri c’è anche quello di scrivere per te?
Ci penso, ci sto pensando seriamente… Non è detto che non accada. Con il tempo sento sempre di più il fatto che con gli altri puoi dire tanto, ma non tutto. Ed è anche giusto. Penso alla metafora dantesca che ognuno ha il suo posto, si riempie di quello che è. Non importa che il bicchiere sia grande o piccolo, quanto sia pieno. Quindi alla fine non ce n’è uno più pieno, lo sono entrambi. Sono supergratificato di riempire grandi bicchieri come Renato Zero, Lucio Dalla, Pfm. Però sento spesso il bisogno di riempire un bicchiere più piccolo: il mio che molte volte rimane a metà.
Tra tutte le tematiche che hai scritto quale ti manca?
Credo che la canzone abbia un valore terapeutico. Anche quando parla d’amore può essere fortemente politica, sociale o viceversa. Modugno, ad esempio, ha fatto bene a questo Paese. Così Orietta Berti quando ha raccontato un’Italia rassicurante. Probabilmente utile quanto un buon amministratore, un politico. Credo che la canzone diventi sociale per necessità, anche se scrivi una canzone prettamente d’amore.
Io ho sempre cercato di scrivere in maniera trasversale: parlare d’amore con dei sottotesti, oppure di politica con delle seconde chiavi di lettura, in modo che tutto si contaminasse. L’elefante e la farfalla può essere una canzone d’amore, sociale, ma anche di guerra. L’importante è avere la capacità, come diceva Lucio Dalla, di scrivere il giornale di domani, scrivere canzoni particolari e universali. Dalla con Futura ha parlato di tutti i figli, anche quelli che non verranno mai. Con L’anno che verrà di tutti gli anni che verranno. Le grandi canzoni raccontano il presente sempre, anche fra venti – trent’anni.
Qual è la tua canzone, quella che ti rappresenta?
Forse come approccio e manifesto L’acrobata di Zarrillo, un pezzo che è andato a Sanremo. È un po’ la rilettura dell’Albatro del poeta maledetto (C. Baudelaire, ndr): la nostra condizione di sentirci vivi solo quando sogniamo e di sentire la caduta quando torniamo a terra. La necessità di stare sempre in equilibrio su qualcosa. Lucio Dalla diceva che le canzoni sono una pagina da mettere sotto i piedi per cercare di sembrare più alti. Un’illusione. Però è il soffio che ti dà l’arte, il bisogno di creare e ristabilire un equilibrio, un’armonia con un vuoto che si ha, che si è vissuto, che forse si avrà sempre. L’acrobata racconta questo grande sogno di essere migliore, il conflitto costante tra ciò che siamo e quello che vorremmo essere e il grande aiuto che ci dà l’arte quando, come l’amore, ci rende migliori. Ci mette le ali…