Continua lo speciale di Gaynews, dedicato ai giovani Lgbti.
Oggi è la volta del 27enne Valerio Colomasi, siracusano di nascita ma vivente a Roma da anni. A lui abbiamo chiesto di raccontarci il suo coming out, l’impegno per la promozione della cultura dell’inclusione durante gli anni universitari alla Luiss Guido Carli e quello nella lotta alle discriminazioni come socio del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli a Roma.
Valerio, quando hai scoperto di essere gay, quali sono state le tue emozioni e i tuoi pensieri? Com’è stato il tuo coming out in famiglia?
Ho sempre avuto la certezza di non aderire, per vari aspetti, al modello che la società aveva preparato per me. Il mio rapporto con questa consapevolezza è mutato nel corso degli anni al mutare della mia maturazione e della mia formazione. Quando ho preso coscienza di essere omosessuale ho avuto la fortuna di trovarmi in una fase molto positiva della mia vita, al punto che il mio percorso di accettazione si è limitato ad una semplice presa d’atto della situazione. Quanto ai coming out il discorso è diverso. Non è un caso che io ne parli al plurale: ciascun coming out ha avuto un valore completamente diverso dagli altri. I primi coming out, con gli amici, sono stati liberatori e hanno rappresentato gli strumenti per costruirmi uno spazio di libertà; poi mi sono fermato.
Ho costruito una dimensione di vita libera e piena, dove nulla era nascosto, dal mio attivismo a Muccassassina, ma avevo difficoltà a comprendere perché io, da persona molto riservata, dovessi essere costretto a fare una dichiarazione pubblica per essere letto, e dunque compreso, dalla società. Ho rifiutato il coming out come uno strumento di controllo sulla mia sfera personale e solo successivamente ho imparato a rivendicarlo come un mezzo di testimonianza pubblica del mio impegno sociale e politico. Per questo, dopo qualche anno, decisi di parlare di me a 360° in una campagna di comunicazione del Roma Pride, una specie di coming out urbi et orbi, con l’intenzione di trasformare qualcosa che consideravo oppressiva in uno strumento di liberazione collettiva, una testimonianza che speravo potesse dare coraggio a chi ancora non l’avesse trovato: coraggio di essere se stessi ma anche, e soprattutto, coraggio di combattere per una società diversa.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza nel gruppo Lgbti della Luiss, di cui sei uno dei fondatori?
L.Arcobaleno è stata, e continua ad essere, un bellissimo esempio di associazionismo. Gli anni che ho dedicato alla nascita e alla crescita di questa associazione non mi hanno solo lasciato ricordi indelebili, ma mi hanno formato come attivista. Sono stati i miei anni di crescita e a quella esperienza sono debitore per quello che sono adesso, anche e soprattutto per il mio modo “laico” di leggere e di vivere l’attivismo Lgbti italiano.
L.Arcobaleno, infatti, è nata anche per dare una casa a chi nel movimento Lgbti non trovava posto, dando dello stesso una lettura critica ma costruttiva. Quella visione rappresenta uno dei tesori più preziosi che porto con me da quegli anni e che cerco di mettere al servizio delle realtà in cui lavoro: il fatto che determinate cose sono sempre state fatte in un certo modo non può voler dire che dovrà essere così per sempre.
Svolgi la tua attività di militante Lgbti nell’ambito dell’associazionismo. Quali sono secondo te i pro e i contro di questa esperienza?
Su pro e contro dell’associazionismo bisognerebbe scrivere un libro. Sicuramente l’associazionismo Lgbti italiano, come in generale tutto il mondo del Terzo Settore, sta vivendo una crisi importante, frutto della trasformazione epocale che viviamo. Questa fase richiede un enorme sforzo di comprensione dei profondi mutamenti che la nostra società ha vissuto negli ultimi decenni e richiede anche un lavoro di trasformazione e adattamento delle associazioni e dei movimenti per rispondere alle nuove esigenze. Lo schema attuale che vede confrontarsi dei modelli aggregativi “novecenteschi” e un pubblico di potenziali attivisti ormai entrati concettualmente (oltre che anagraficamente) nel nuovo millennio, non riesce più a portare avanti con la medesima efficacia quelle istanze di cambiamento che restano essenziali per la società italiana. L’analisi delle criticità, più che dei “contro”, si ricollega inevitabilmente ai “pro” della mia attuale esperienza associativa al Circolo Mario Mieli.
Il Circolo quest’anno compie 35 anni e con la sua colossale storia porta anche le inevitabili necessità di trasformazione. La differenza rispetto ad altre realtà, nonché la ragione che mi ha spinto ad impegnarmi qui, è che il Circolo ha capito che è necessario cambiare e sta cominciando a farlo. Un cambiamento più vicino a una naturale evoluzione che a una sbrigativa “rottamazione”, un adattamento finalizzato a continuare il proprio compito di trasformazione del Paese partendo dalla nostra storia, coinvolgendo le forze migliori che negli anni hanno dedicato le proprie energie al Circolo e investendo sulle nuove energie che si affacciano adesso all’impegno politico.
L’onda Pride 2018 è in arrivo. Cosa pensi di questa formula? Un orgoglio dei localismi ?
Onda Pride è uno strumento e come tale non è di per sé né buono né cattivo. Gli strumenti sono funzionali ad una strategia che a sua volta segue l’analisi della situazione; il problema di Onda Pride è che, pur rispondendo ad una corretta analisi del movimento Lgbti italiano, non è al servizio di alcuna strategia. Onda Pride nasce proprio dalla presa d’atto che non si riusciva a formulare alcuna strategia complessiva sulla questione “Pride” e quindi ci si è limitati ad abbandonare il campo e a fotografare un movimento Lgbti che in Italia è sostanzialmente “cittadino”. Prova dell’assenza di strategia è che Onda Pride nel corso degli anni si è via via depotenziata riducendosi, oggi, ad un mero elenco online di Pride su tutto il territorio nazionale. Il problema è l’assenza di strategia, non gli strumenti, e negli ultimi anni abbiamo assistito ad un fiorire incessante di strumenti con il contemporaneo appassire di ogni forma di strategia politica collettiva.
Per rispondere direttamente alla domanda: sì, è il trionfo dei localismi ma questo non è di per sé un problema perché frutto della constatazione che ad essere “locale” è lo stesso movimento Lgbti italiano. Il problema, semmai, è appiccicare un’etichetta dal vago sapore unitario a qualcosa che unitario non è. Del resto anche questa non è affatto una pratica nuova nel nostro mondo.
Cosa significa per te lavorare come militante in una città cosi grande e piena di contraddizioni come Roma?
Roma è una città difficile, e non mi riferisco solo alle innegabili difficoltà logistiche e pratiche di una metropoli che negli ultimi anni è stata governata come se fosse una cittadina medio-piccola. Il problema di Roma, oggi, è il torpore. Un torpore che talvolta è anche politico, culturale e artistico, e che la fa retrocedere nell’immaginaria classifica delle città di avanguardia. Come è possibile che una città così grande, così interessata da fenomeni migratori, abbia rinunciato a costruire strade nuove del pensiero, della cultura e della politica che, grazie alla contaminazione, dovrebbero invece trovare un ambiente estremamente fertile a Roma?
Sicuramente c’è un problema di classe dirigente, quella vecchia che nel sonno del pensiero non conforme prospera, ma anche quella che pretende di essere “nuova”, ma che è arrivata alla guida grazie alla semplificazione spicciola e alla divisione netta, guardando con orrore a chi ricerca le sfumature e “complica” i discorsi per andare a leggere ciò che non è visibile a occhio nudo. Il patto scellerato tra queste due “elite” ha portato a politiche di smantellamento costante dei luoghi di elaborazione culturale e politica non inquadrate, nonché a continui tentativi di indebolimento delle istanze di cambiamento radicale che, con difficoltà, maturano anche in questa città sfortunata.
Il risultato elettorale ha viswto un’avanzata del M5s e della Lega nonché una disfatta dei partiti della sinistra. Il Movimento Lgbti come può rafforzare la sua battaglia per i diritti Lgbti? È sufficiente parlare solo di questi diritti oppure è ora di cambiare allargando ad altri fattori di rischio?
Dopo il 4 marzo ci troviamo in una fase di passaggio in cui si abbozzano nuovi poli politico-elettorali, la cosiddetta “Terza Repubblica”, ma dubito che l’affermazione di Lega e Movimento 5 Stelle esaurisca la trasformazione del quadro politico. I due partiti, pur diversi in tanti aspetti, hanno in comune l’impostazione politica di fondo, in particolare in riferimento al ruolo della politica nella società. Entrambi sembrano allergici ai corpi intermedi e vivono il ruolo dei partiti politici come quello di un catalizzatore dei sentimenti e delle emozioni dell’elettorato. Per rendere efficace questa impostazione devono solleticare questi sentimenti e queste emozioni innescando un circolo che si autoalimenta. Allo stato attuale manca un’alternativa politica a questo schema, quantomeno in una dimensione virtualmente maggioritaria. Ecco, credo che queste elezioni abbiano dato vita ad uno solo dei poli che si contenderanno la leadership nella “Terza Repubblica”, manca il suo antagonista. Quella che manca è una voce progressista che si assuma la responsabilità di non limitarsi a registrare e rilanciare gli umori dell’elettorato ma che si impegni a governare le trasformazioni che le nostre società stanno vivendo. Serve una voce che rimetta al centro i corpi intermedi e che con essi si impegni a fare elaborazione e sintesi politica. La sfida del nostro movimento dopo le elezioni di quest’anno è innanzitutto questa.
Noi siamo tra coloro che più hanno da perdere dall’eccessiva semplificazione del dibattito pubblico, dalla rappresentazione senza filtri di sentimenti e umori e dalla morte di quei corpi intermedi che hanno rappresentato le sedi dell’avanguardia politica e culturale nel nostro Paese. Del resto le ultime elezioni ci hanno dato prova di quanto diventi ininfluente il movimento Lgbti italiano, soprattutto in ambito nazionale, quando i partiti privilegiano il rapporto diretto tra elettore e leader. Così il principale partito di centrosinistra, per anni interlocutore privilegiato del nostro mondo, ha “impallinato” un attivista storico, oltre che ottimo senatore, come Sergio Lo Giudice, ha scritto la parte del programma relativa alle questioni Lgbti senza il contributo delle associazioni Lgbti, ha ricandidato i catto-dem che hanno mutilato la legge sulle unioni civili e la lista potrebbe continuare. Forse, quindi, la sfida che abbiamo davanti non riguarda solo e tanto le nostre rivendicazioni ma il modo stesso di fare politica perché su questo piano si gioca oggi la partita decisiva per il progresso del Paese.
Una volta essere gay, visibile e impegnato nel movimento Lgbti era “rivoluzionario”. Cosa significa essere un persona Lgbti nel nuovo Millennio?
Direi che essere impegnati nel movimento Lgbti oggi ha comunque una portata in qualche modo “rivoluzionaria”. Certo, il mondo è cambiato e le sfide di oggi sono molto meno complesse di quelle di ieri, ma la testimonianza delle tante persone che, in un’epoca di disimpegno, scelgono di mettersi al servizio della comunità rappresenta qualcosa di prezioso. Il nostro movimento, nonostante le tante difficoltà, continua a scendere in piazza, continua a costruire politica, continua a interrogarsi e a crescere, continua a fare cultura, continua a sopperire alle lacune nelle politiche di Welfare, continua a creare aggregazione, tutte attività che ormai fanno in pochi. Fare politica in un contesto in cui sembra che nessuno voglia più davvero farla è una scelta rivoluzionaria, rappresenta un modo diverso di essere cittadini e cittadine: di questo dobbiamo essere molto orgogliosi.