Un libro denso di spunti di riflessione e di interessanti considerazioni sulle diverse possibilità di essere e di relazionarsi, che affronta il nodo esistenziale dell’identità in maniera antidogmatica e ironica. Potremmo presentare così in sintesi il libro 100 Punti di ebraicità (secondo me) di Anna Segre, pubblicato dalla casa editrice romana Elliot.
Per la precisione si tratta di un campionario di voci legate a una forma di ebraismo laico e dissacrante, restituite ai lettori da Anna Segre, cattolica per gli ebrei, ebrea per i cattolici, medico per gli psicoterapeuti, psicoterapeuta per i medici, non proprio connotata come omosessuale, ma abbastanza lesbica per gli eterosessuali. In equilibrio instabile, comunque, sulle etichette sociali.
Un libro, in ogni caso, che non può essere compreso appieno senza la lettura di 100 Punti di lesbicità (secondo me), pubblicato anch’esso, in contemporanea, dalla Elliot.
Contattiamo Anna Segre e proviamo a capire con lei qualcosa in più di queste opere gemelle.
Dottoressa Segre, che cosa significa per una persona laica come lei questo sentimento di ebraicità e com’è nata l’esigenza di scrivere un tale libro?
L’ebraismo, per come lo vedo io (c’è anche nel sottotitolo), più che una religione, è un sistema: etico, morale, comportamentale, sociale, cognitivo. Anche senza fede, se sei nata da madre ebrea e sei stato educata in una famiglia ebraica, potresti, sì (o anche non), sapere le preghiere, ma di certo hai un senso di ebraicità, di differenza, di letterarietà, di eventualità di persecuzione. Hai una memoria collettiva di strage, una memoria familiare di leggi razziali tali da rendere l’‘essere ebrea’ un’identità a tutto spessore che coinvolge ogni sistema motivazionale. L’ebraismo non chiede fede, chiede di attenersi alla legge. Il tuo rapporto con Dio è personale; il tuo rapporto con la comunità, invece, ci riguarda ed è normato da regole condivise e non baipassabili. Ecco perché, sempre nel mio specifico caso, essere ebrea filtra l’essere cittadina, condomina, professionista, amica, donna, essere umano.
L’esigenza di scriverlo? Mi sono accorta che questi aspetti, forse, di origine ebraica del mio comportamento sono talmente intrinseci da diventare identitari. Salvo che il discorso dell’identità è proprio quello su cui sono ambivalente, critica e nevrotica.
Tra i 100 Punti di ebraicità ce n’è uno che riporta al senso della precarietà e all’idea dei confini. Oggi, in epoca di migrazioni, il tema sembra riguardare più popoli. Cosa è per lei il senso della precarietà? Cosa ne pensa dei confini?
I confini sono appannaggio degli Stati e dei governi. I governi, per quanto necessari, sono spaventosi nella loro possibilità di chiudere o aprire, di legiferare pro o contro. Con questa questione gli ebrei della diaspora si confrontano da millenni (le migrazioni ci sono da sempre); c’è una quantità di letteratura e di testimonianze sull’essere respinti al confine o buttati fuori confine. Una brava mamma ebrea ti educa a viaggiare leggera, a essere pronta a cambiare casa, paese, lingua, scuola, moneta, vita. Per rimanere viva. La condizione di migrante mi riguarda, suscita in me una forte empatia, un neurone specchio forse anche più identitario dell’ebraismo, anche se sono nata e vissuta in Italia a Roma e il mio massimo spostamento è stato da Cassia a Ostiense.
Se dovesse individuare il punto di ebraicità più importante, in questa sua campionatura, quale individuerebbe?
L’ebraismo come nevrosi minoritaria.
Un altro punto, che in realtà poi tratta ampiamente nell’altro libro, è relativo al lesbismo. C’è un conflitto tra la propria condizione omosessuale e il senso d’appartenenza alla cultura ebraica, sia pure laica? Le è capitato di vivere più lo stigma omofobico o quello antisemita?
Essere lesbica mi ha portato innanzitutto un conflitto interno, rispetto a quanto io ritenevo che la mia famiglia, il mio mondo si aspettassero da me e che io stessa mi aspettavo da me. Ma che il mio desiderio e naturale propensione contraddicevano nettamente.
La domanda sospesa era: Potrò ancora far parte di voi (famiglia, comunità, mondo) anche se amo solo donne? O dovrò rinunciare a quell’amore, per conservare il vostro?
Ed è probabile che io fossi così impegnata a cercare una mediazione (che allora mi pareva impossibile) da non accorgermi forse degli sguardi maliziosi e di quanto l’essere lesbica condizionasse la mia carriera o la mia socialità. Ma, ecco, cercavo di tagliare la testa al toro presentandomi così: Piacere, Anna Segre, ebrea, lesbica. A chi non fosse piaciuto, si sarebbe allontanato subito: una sorta di selezione.
Essere lesbica condiziona fortemente ogni tuo movimento interpersonale, anche se sembra di no. Non è una condizione agile, non è prevista, non è agevolata dalle banche, dalle leggi notarili, dalle offerte di viaggio, dalle logiche sociali. È una salita. Non serve violenza, vengono ‘solo’ frapposti innumerevoli piccoli ostacoli da niente che rendono la vita degli altri un percorso, la tua giochi senza frontiere. Gli ebrei hanno tutti i diritti civili, gli omosessuali no.
Sull’antisemitismo, che è arrivato negli ultimi anni travestito da antisionismo, invece, sfuggo come un’anguilla. Io, in quanto ebrea, dovrei rispondere degli atti di un governo di uno Stato in cui non abito e che non ho votato. Come se i cittadini di uno Stato fossero tutti responsabili e dovessero dare ragione degli atti del loro governo, oltretutto. E sono considerata, in quanto ebrea, sostenitrice di governo, esercito, guerra e, presuntivamente, atti politici. Beh, mi ribello: non mi farò mettere addosso etichette e non credo di dover dare ragione delle mie idee in proposito poiché sono ebrea. È un ring da rifiutare.
D’altra parte, dopo la Shoà, in quanto ebrea, mai nessuno mi ha apostrofato malamente. E credo che sia nodale, la Shoà, per questa mia vita fortunata.
(Mi chiedo inoltre: Le librerie ebraiche compreranno anche 100 punti di lesbicità? Le librerie femministe Lgbt vorranno leggere anche 100 punti di ebraicità? E tu come mai ti riferisci solo a ebraicità? In fondo, in ebraicità si parla di omosessualità e in lesbicità di ebraismo: come mai si decide per l’uno o l’altro?)
Alla luce di quanto ha appena dichiarato, come si integrano i 100 punti di ebraicità coi 100 punti di lesbicità?
Vorrei dire con questo lavoro: Ti rendi conto di quanto siamo simili, anche se sto parlando di ebraismo e tu non sei ebreo? Ti rendi conto che l’omosessualità è una delle possibili sessualità ed è analoga alla tua? Vorrei chiamare i lettori a una coralità, che non significa intonare una sola nota, ma capire che cantiamo la stessa canzone.
I due libri sono connessi poiché esprimono lo stesso concetto sovraordinato. Ebraismo e omosessualità in copertina negano nel testo le parole stesse della stigmatizzazione: vogliono usare l’etichetta per sovvertirla in quanto tale. Siamo tutti gli ebrei di qualcuno, siamo tutti froci perseguitati in quanto innamorati della persona ‘sbagliata’. Nulla è più scespiriano di un amore osteggiato e noi siamo tutti figli di Romeo e Giulietta. Tu, cattolico eterosessuale, sai perfettamente cosa vuol dire, malgrado le tue facilitazioni sociali. Eppure (o forse di conseguenza), le parole lesbicità e ebraicità in copertina hanno un effetto identitario: i libri sono spesso acquistati separatamente con logiche di appartenenza.
Sarebbe stato meraviglioso, un goal da cannoniere, se i miei amici maschi ebrei eterosessuali si fossero fotografati con il libro 100 punti di lesbicità in libreria. Ma l’hanno fatto con 100 punti d’ebraicità, affettuosi e sostenitori della mia pubblicazione. Capisco perché e so aspettare la loro lettura: forse, dopo, la penseranno diversamente. Se così non fosse, posso comunque dire che ci ho provato: ci ho provato fino all’ultimo, fino a dire una parola così difficile – lesbica, ebrea – in copertina.
Come giudica, da donna lesbica, l’attuale frattura esistente tra le donne lesbiche italiane relativamente a temi come la gpa e l’inclusione d’istanze specifiche nel quadro dei quelle dell’intero movimento Lgbti?
Le dico cosa pensodi questa questione, anche se, leggendomi, l’avrà già capito. In una società patriarcale, l’utilizzo dell’utero è normato da leggi che garantiscono, appunto, i padri. Per essere certi della paternità, la società umana è basata sul matrimonio. Lo sa che il contratto di matrimonio ebraico è un contratto di acquisto della sposa? Si chiama Ketubà. Sulla compravendita sarei interlocutoria, se permetti, visto che la mercificazione del corpo della donna è di legge da 5.000 e rotti anni.
Ecco. Io credo che, se mai avessi voluto usare il mio utero per fare figli (e non è stato così per scelta), l’avrei fatto partendo dall’assunto che si trattava del mio corpo. E, metti che io volessi portare avanti una gravidanza per dare un figlio a una coppia sterile, di qualsiasi coppia si trattasse, sarebbe stata una mia insindacabile scelta. Perché? Perché l’utero è mio e me lo gestisco io, anche se non vorrei sembrarle troppo anni ‘70.
La frattura c’è perché la chiesa, tutte le chiese, patriarcali e garantiste del sistema così com’è, imbeve le nostre coscienze con etica e morale tuonanti sulla sacralità e unica possibilità della maternità. Io sono per la gpa, ovviamente.
Infine, quale tra i 100 punti di lesbicità le sta più a cuore?
Mi permetto di rispondere con la poesia Fuori che è nel libro:
Fuori.
All’addiaccio dell’altrui sguardo.
Rivèlati. Dì la verità.
Che non è la vera verità,
Ma l’acqua in cui tutti hanno sciacquato i piatti sporchi del loro pregiudizio,
E poi il laido sei tu.
Dillo a mamma, dillo a Dio, dillo agli amici.
Fai un atto politico,
Véndicati dell’esilio nella discrezione
Con una postura scandalosa: a testa alta.
Fai un atto di coraggio,
Porgi la faccia agli schiaffi,
Che l’ha già fatto un maestro del contropiede:
Il prezzo è alto,
Ma sappiamo che il messaggio potrebbe passare.
A un metro da te quell’ultimo confine
Di ombra:
Fai il passo.
Non lasciargli la scusa dell’ignoranza,
Non lasciargli la manovra del ‘non sapevo’,
Trascinalo nella piena luce di te,
In fondo cosa è la co-scienza,
Se non il sapere insieme?
Il coraggio è contagioso
Quanto la paura.