Con ordinanza, depositata il 15 marzo 2018, il Tribunale di Pisa aveva rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per verificare se la legge italiana, vietando di indicare due donne lesbiche come mamme di un bambino venuto due anni alla luce nel capoluogo toscano, non violasse i loro diritti fondamentali.
Ma a tali atti, contenenti dati personalissimi, avrebbero potuto accedere finora le associazioni Vita è, rappresentata dal senatore Simone Pillon, il Centro Studi Livatino e Rete Lenford, in quanto intervenute nel giudizio.
Cosa che ha spinto le due donne, attraverso gli avvocati Alexander Schuster (loro legale sin dall’inizio) e Vincenzo Zeno-Zencovich (esimio giurista e rettore dell’Università degli Studi Internazionali di Roma), a presentare istanza, il 6 settembre, a Giorgio Lattanzi, presidente della Corte Costituzionale, perché fosse posto termine alla prassi di accedere agli atti di causa in giudizi pendenti.
Richiesta motivata in quanto tale prassi apparirebbe contraria alle regole processuali comuni e incompatibile con la tutela della riservatezza dei dati personali contenuti negli atti di causa. Tanto più che, nel loro caso specifico, due delle tre associazioni intervenute sono manifestamente contrarie alle loro richieste.
Con provvedimento del 21 novembre (ma reso pubblico solo nelle ultime ore sulla homepage della Corte Costituzionale) il presidente Lattanzi, dopo aver ampiamente ricostruito le norme processuali italiane e richiamato proprio alla tutela della riservatezza delle persone coinvolte, ha determinato la fine di tale prassi.
Viva soddisfazione è stata espressa dall’avvocato Schuster, che ha dichiarato: «Questa prassi aveva sollevato dubbi in me sin dalla mia prima esperienza in Corte costituzionale nel 2010 con la sentenza sul matrimonio gay.
Essa consentiva fino a ieri ad associazioni contrarie ai diritti delle donne e delle minoranze l’accesso senza filtro a informazioni assolutamente personali.
Spero anche che ora associazioni che intervengono a supporto siano indotte più di prima a coordinarsi con chi cura la difesa dei diretti interessati.
Nel caso di specie, si è appreso dell’intervento di tutte le associazioni, inclusa Rete Lenford, in cancelleria. Appare difficile fare un fronte comune senza un minimo di dialogo fra colleghi».
Ha anche rilevato come «rimanga ancora aperta la questione che abbiamo postoquanto all’opportunità che chiunque intervenga abbia diritto di prendere la parola in udienza,sottraendo di fatto tempo e spazio a chi deve difendere le libertà costituzionali di persone concrete: le vere parti del processo».