Dopo l’imponente manifestazione transfemminista e arcobaleno del 30 marzo a Verona in risposta al Congresso Mondiale delle Famiglie abbimao incontrato Michela Pascali, componente della Segretaria nazionale Silp Cgil e vicepresidente di Polis Aperta. A lei abbiamo chiesto un parere su quanto accaduto nel capoluogo scaligero e non solo.
Il 30 marzo Verona si è riempita di colori e anche Polis Aperta era li. Quali sono state le tue/vostre emozioni?
Difficile racchiudere le emozioni in parole, per quanto belle, pur sempre limitanti. Come associazione avevamo concordato da tempo di ritrovarci sul lago di Garda. In luglio abbiamo perso un Amico, un compagno, un socio che per Polis Aperta si era speso tantissimo fino a militare nel direttivo, Alessandro Saramondi.
Volevamo ricordarlo nei luoghi dove aveva lavorato con passione e penso che i colori di Verona siano stati l’abbraccio più intenso che tutti e tutte noi avremmo potuto dargli.
C’è un clima difficile nel Paese e troppo spesso si assiste a fatti di violenza di stampo razzista, misogino, omofobo e transfobico. Per chi, come te, è nelle forze dell’ordine come percepisce e risponde a tale situazione?
Definirei il nostro vivere sociale ‘il quotidiano competere’. La percezione della paura di perdere il proprio status agisce in maniera inconscia e trasforma il terreno, che diventa facilmente permeabile all’uno contro tutti e tutte. Ed ecco che i messaggi di intolleranza trovano eco e risonanza. Il diverso diventa necessario per contestualizzare le responsabilità rispetto al lavoro che non c’è, alla crisi economica, ai femminicidi e alla violenza.
Il nostro è un lavoro arduo. Lo stereotipo comune ci vuole razzisti, omofobi, violenti. Riuscire a tenere fede ai valori costituzionali, a non cedere alle provocazioni, a denunciare la violenza anche quando questa appartiene a chi indossa la nostra stessa divisa è difficile. Abbiamo bisogno di riconquistare la fiducia dei cittadini.
Del corteo di Verona è questo aspetto che mi ha colpita: ogni qual volta incrociavamo il presidio dei colleghi la gente in marcia manifestava, seppur in maniera civile, il proprio dissenso per la divisa. La divisa viene associata ad un pensiero, ad un certo agire. E Polis Aperta è, invece, la dimostrazione che la maggior parte delle persone che fanno il nostro mestiere, chiedono: rispetto, giustizia sociale e vogliono essere di aiuto per la cittadinanza. È necessario ritrovare la capacità di guardarci da persona a persona, senza cadere nel più semplice processo della categorizzazione.
Il Paese più che nel passato appare maggiormente caratterizzato ed influenzato da un clima omo-tansfobico. Come si vive l’essere Lgbtiq nelle forze dell’ordine?
La discriminazione è un fenomeno complesso. Lavoriamo in ambienti tradizionalmente sessisti, omofobi, transfobici. Ma il tasso di intolleranza corrisponde in maniera proporzionale a quello percepito a livello complessivo da tutta la società. Come amministrazioni siamo una fetta di popolazione che proietta la società.
Il nostro lavoro rende sicuramente più difficoltoso il nostro cammino di consapevolezza da un lato e di rispetto nei nostri confronti da parte di chi tra i colleghi, le colleghe, i cittadini è ancora poco disponibile nei confronti delle persone Lgbtiq dall’altro. Viviamo in mezzo ad un fuoco incrociato. Ecco perché Polis Aperta per noi tutti rappresenta un’isola, una zona confort nella quale rifugiarsi e sostenersi.
A tuo parere tutto ciò può essere un deterrente alla visibilità e, quindi, al coming-out delle persone Lgbtiq chelavorano nei diversi ambiti e settori delle forze dell’ordine?
Indubbiamente sì.
Ritorno al tema della competizione. A livello lavorativo la crisi economica ha reso più difficili i rapporti d’ufficio. Purtroppo l’umano talvolta tende a tutelare prima il sé, solo dopo si analizzano e si valorizzano le tutele collettive. Questo porta alla chiusura verso l’altro. E in quel gioco perverso delle categorie rifarsela con le donne, il nostro resta un ambiente assolutamente sessista, con le persone omosessuali è come sparare sulla croce rossa. Mi riferisco ai processi di svalutazione tipici: un ambiente machista ad esempio deplora il collega come frocio per svalutarne le competenze, anche quando la persona non si identifica necessariamente ad orientamento omosessuale. Questo non è sicuramente da stimolo per un coming-out.
Polis Aperta è una realtàoramai presente e fortemente consolidata: quali le iniziative?
Come Polis Aperta siamo attivi su tutto il territorio nazionale. Il nostro è un lavoro intersezionale fatto di alleanze con tutte le altre associazioni Lgbtiq e non solo, attive a livello nazionale e non solo. Siamo di sostegno per tutti e tutte coloro che ci interpellano per aver subito dei reati a sfondo omo-bo-transfobico, e per i colleghi e le colleghe che vivono situazioni di disagio in caserma. Stiamo cercando di aumentare gli incontri formativi per gli operatori delle varie forze di polizia e, sul piano europeo, facciamo parte di Egpa, una rete associativa di realtà Lgbtiq con le quali condividiamo un cammino fatto di buone prassi sia rispetto alla piena consapevolezza individuale, che in merito all’operatività in quanto operatori di pubblica sicurezza.
La Michela di Polis Aperta e la Michela del sindacato Cgil: ci sono differenze?
Temo non ce ne siano, nel bene e nel male.
Sono due mondi, quello sindacale e quello associativo, assolutamente importanti e complementari e sento con orgoglio le responsabilità che entrambi recano in sé. Sono grata per la fiducia e la possibilità che mi è stata data da Daniele Tissone, il segretario generale Silp Cgil e dai soci di Polis Aperta. Tutto questo mi sta permettendo di crescere come persona in una maniera incredibile. Di mio, spero di ricambiare facendo sempre del mio meglio.