Lovers, il più antico festival a tematica Lgbt di Europa, avrà inizio a Torino fra pochi giorni: l’inaugurazione avverrà infatti, il 24 aprile, al Cinema Massimo del Museo Nazionale del Cinema.
Gaynews ha incontrato Elsi Perino, curatrice della sezione Real Lovers (il concorso internazionale per i documentari) per il festival. Uno dei tanti punti di forza della kermesse cinematografica arcobaleno è, infatti, proprio l’attenzione che dedica al documentario.
Elsi, ci racconti questa sezione?
Real Lovers è il concorso dedicato al cinema del reale che, con Irene Dionisio e tutto il comitato di selezione, abbiamo riportato sugli schermi già dall’edizione del 2017. È una sezione free border, in cui tematiche e nuovi sguardi narrativi sono gli elementi tenuti principalmente in considerazione. La call internazionale ci permette di visionare materiali e istanze molto differenti tra loro, cercando il più possibile di costruire un discorso diversificato e stratificato di significati.
Cerchiamo di fare il punto sullo stato attuale delle cose, immaginando questi titoli come preziosi tasselli di una narrazione su e per la comunità Lgbtqi, ma non solo. Ma guardiamo anche indietro, da dove siamo partiti, per non dimenticare la strada percorsa. Real Lovers è chiaramente la sezione più politica del nostro programma, perchè il vissuto, le istanze e le narrazioni del reale lo sono sempre.
Quali sono i temi dei titoli selezionati?
Abbiamo cercato di costruire un programma diversificato. Apriamo il concorso con Normal, dell’italiana Adele Tulli, fresco di debutto alla Berlinale 2019. Normal è una panoramica tra gli stereotipi che genere e ruoli di genere ci impongono: un lavoro garbato e preciso di osservazione senza giudizio. Sempre dalla selezione Berlinale, proietteremo Lemebel, il Premio Teddy 2019 per il miglior documentario: biografia su Pedro Lemebel, uno dei volti più importanti del movimento Lgbt cileno, che si batteva per i diritti civili contro la dittatura di Pinochet. Lemebel è un manifesto, il ritratto di un pioniere che ci ricorda, nel 50° anniversario dei Moti di Stonewall, il valore fondamentale della militanza.
Sempre in questo senso è stato selezionato An Army of Lovers, che ricostruisce la storia del movimento Lgbt svedese attraverso le principali pellicole a tematica prodotte in loco, assumendole come parte integrante della militanza. Si continua con un altro ritratto di un personaggio chiave della cinematografia nazionale e internazionale. Abbiamo infatti il piacere di presentare in anteprima internazionale Helmut Berger, my mother and I, un documentario dalla struttura insolita, che intende rimettere Berger davanti alla camera e raccontare con tenerezza ed infinita ironia quella che possiamo definire una personale e strampalata Caduta degli dei. Eye candy decostruisce gli equilibri normativi dell’ambiente del wrestling: la protagonista Yasmin Lander è una giovane wrestler lesbica, che mina alla base le dinamiche di un ambiente sportivo quasi esclusivamente riservato al genere maschile, ritagliandosi con tenacia uno spazio di visibilità identitario.
Chiude la competizione My family in transition, la storia di una famiglia di una piccola cittadina israeliana profondamente legata alle tradizione, che affronta e supporta il percorso di transizione MtF di un genitore, ridefinendo così convenzioni sociali, ruoli di genere e, coralmente, la propria identità.
Possono il cinema, in generale, e il documentario, in particolare, essere uno strumento per combattere l’omotransfobia?
Possono e sono, a mio avviso, necessari. Non credo nel cinema che offre risposte, sia chiaro, ma sono fortemente sostenitrice e consumatrice – lo dico da spettatore prima che da addetta ai lavori – del cinema che si fa delle domande, che cerca linguaggi, sguardi e tematiche per universalizzare le esperienze e renderle intellegibili. Sostituire le opinioni preventive e porsi in una condizione di ascolto fa sì che si costruisca un punto di contatto: credo che valga più o meno per tutto. Il rispecchiamento o l’empatia vengono subito dopo. Oltre a questo c’è un aspetto che può sembrare retorico, ma non è affatto scontato: le pellicole di genere, tutte e indistintamente, portano sempre con sé un aspetto politico più o meno dichiarato a seconda del tema. E anche questo permette al cinema di essere uno dei mezzi per combattere l’omobitransfobia.
Un’ultima domanda, magari pleonastica. Ma è vero che a Lovers, da sempre, passano i film “che cambiano la vita”? E che quindi il festival continua a essere necessario?
I film che cambiano la vita, come ti dicevo nelle precedenti risposte, sono tutti quelli che aggiungono qualcosa all’idea di sé, un pezzo al ragionamento o semplicemente uno strumento. Molti dei miei fondamentali li ho visti proprio grazie al festival: quindi lo confermo. Il Lovers quest’anno compie 34 anni: io l’ho conosciuto prima come semplice spettatrice, poi dal punto di vista lavorativo e credo che il panorama culturale della nostra città (ma non solo, fu il primo italiano e uno dei primi a livello mondiale interamente dedicato al cinema di genere) sia stato per forza di cose contaminato dalla portata politica e intellettuale di un festival come questo.
Un festival di cinema Lgbtqi è un luogo di proiezioni principalmente, ma è anche luogo di incontro e di scambio, di dibattiti e crescita, un momento in cui si aggiunge qualcosa agli immaginari. Viviamo un momento storico in cui i diritti, moltissimi non solo quelli Lgbtqi, sono fortemente messi in discussione. Proprio per questo è necessario mantenere gli spazi di produzione e circolazione di cultura aperti, in ascolto e il più possibile vigili.