Ascoltando Pony, il debutto discografico del canadese Orville Peck, e lasciandosi ammaliare da quei magnetici occhi azzurri celati dietro maschere di lattice, che lui stesso si costruisce, ci si chiede se l’America che racconta esista ancora. O se mai sia esistita oppure se non sia una proiezione odierna di miti e desueti romanticismi, vivi soltanto nell’immaginario collettivo.
A essere certo è che il nostro sceglie il genere country per raccontarsi. E lo fa coraggiosamente, considerato il fatto che la popolarità di questa fetta di industria discografica guarda soprattutto a un’America conservatrice e spesso reazionaria, poco incline ai racconti di avventure e amori omosesuali che Orville esplicita nei suoi pezzi.
Tenuta da cowboy, maschera frangiata e chitarra, maneggiata con grande disinvoltura, non mancano di solleticare l’immaginario erotico già sapientemente attinto in ambito eterosessuale dal Chris Isaak dei tempi di Twin Peaks. Stesso languore, stessa elegante lascivia sprigionata da timbri di voce evocativi.
Ma oltre la facciata, evidentemente costruita ad arte per incuriosire, c’è molta sostanza. C’è il richiamo al grande Roy Orbison e ci sono le schitarrate che rimandano al punk, da dove Peck proviene anche se ovviamente nessuno conosce le band nelle quali ha militato in passato. Un mix che disegna il mito di questo cowboy metropolitano, quasi un neo “uomo da marciapiede” che, calzando i suoi camperos, disegna i tratti di un personaggio quasi fumettistico o cinematografico.
Immediato è il richiamo alla memoria dei cowboy di Brokeback Mountain. Eppure il disco, spoglio delle sue citazione visive, funziona eccome: a testimonianza di una capacità di scrittura di tutto rispetto, così come le esibizioni live, pur sempre dietro le fantastiche maschere dall’innegabile fascino fetish che, a suo dire, lo rendono libero di esprimersi al meglio.
Verità o furbata certo è che Peck ha la capacità di farci viaggiare in compagnia di uomini che non esistono, se non in polverose fantasie erotiche, in paesaggi di un’America nostalgica. Che si tratti sia di fumosi club di provincia sia di solitarie praterie, popolate solamente da fantomatici e sensuali mandriani.
Nel panorama un po’ appiattito odierno dell’industria musicale non è poco. Orville, chiunque tu sia, imbraccia la tua chitarra e facci sognare ancora.