Il suo era diventato un caso internazionale dopo che, il 28 agosto, aveva fatto coming out attraverso il canale YouTube Umugisha Tv, dedicato alle news sul Gospel in Ruanda. Come poi spiegato dallo stesso protagonista, Albert Nabonibo, contabile e noto cantante Gospel di Kigali, «ero stanco di nascondermi. Questa uscita è stata un modo per superare la mia paura e dare l’esempio».
Ma iniziano a fioccare gli attacchi social e sui media. La famiglia reagisce duraramnte. E nel giro di due settimane, come dichiarato dallo stesso 35enne alla Bbc, perde il lavoro e la Chiesa anglicana del Ruanda gli chiude i battenti.
«Se sanno che sei omosessuale, le chiese qui ritengono – ha spiegato – che la tua musica non può essere più al servizio di Dio e non puoi più venire in congregazione».
Poi a metà ottobre la possibilità di tornare a cantare per il Signore e annunciare il Vangelo. Grazie alla ong Amahoro, la cui missione è quella di garantire luoghi di culto a chi soffre le diverse forme di marginalizzazione, Albert è entrato in contatto con una comunità pentecostale in un quartiere popolare di Kigali.
Si tratta di una realtà ecclesiale che, nata due anni fa dalla collaborazione tra la locale Église de Dieu d’Afrique et du Rwanda (Edar) e la comunità afro-americana The Fellowship of Affirming Ministries (Tfam), predica l’inclusione totale e accoglie senza distinzioni le persone Lgbt.
«Qui si fa un’opera di riconciliazione con la parola di Gesù Cristo, che porta un messaggio di accettazione radicale – ha detto Joseph Tolton, vescovo di Tfam, dopo una messa a Kigali a inizio ottobre -. La nostra Chiesa rifiuta il lavoro della rete evangelica conservatrice americana, che cerca di influenzare l’evoluzione della società di alcuni Paesi africani». Riferimento esplicito alla confinante Uganda, dove i gruppi evangelicali sono tra i maggiori responsabili nell’alimentare un clima di odio nei riguardi delle persone Lgbti.
I rapporti tra persone dello stesso sesso non sono perseguiti penalmente in Ruanda ma le persone Lgbti continuano a essere vittime di stigma sociale e discriminazione. Nel 2009 si era discusso in Parlamento di un’eventuale criminalizzazione dell’omosessualità con pene dai 5 ai 10 anni, ma l’allora ministro della Giustizia Tharcisse Karugarama reagì fermezza dichiarando che non era affatto intenzione del Governo procedere in tal senso.