È sempre affascinante quando un lavoro artistico nasce da un’urgenza di conoscersi e di raccontarsi. Non necessariamente una confessione quanto, piuttosto, l’offerta di una chiave di lettura per comprendersi e lasciarsi comprendere. Nel bene e nel male.
La letteratura, la musica, la pittura, l’arte in genere è zeppa di necessarie esternazioni del proprio sentire più intimo. Proust con il suo unico capolavoro À la recherche du temps perdu, i quadri di Caravaggio, le poesie di Kavafis, alcuni film di Visconti: tutti magma interiori che i corpi non sono riusciti a contenere generando geniali eruzioni.
Deve essere successo qualcosa di simile a Bendik Giske quando ha sentito l’ineluttabile esigenza di incidere Surrender. L’inevitabile trasposizione di se stesso in musica attraverso il suo sassofono, strumento amato e odiato, suonato come fosse una parte di sé, come se fosse la via d’uscita di intrattenibili pulsioni. Racconta Giske di aver detestato il suo strumento quando studiava a Copenaghen, unico alunno gay dichiarato tra duecento allievi, viatico verso un mondo del jazz nemmeno sfiorato dall’universo Lgbt come invece è accaduto al mondo del pop e del rock. Così Bendik abbandona le melodie.
«I never play melodies», confessa e cerca altre vie non convenzionali per poter permettere al suo sax di raccontarlo. È il famoso Berghain di Berlino ad indicare la via, tempio della techno più oscura, dell’inconscio che domina la ragione, del battere pulsante dei bassi nelle sale buie dagli altissimi soffitti, dove non ci sono specchi per riconoscersi. Dimenticarsi per ritrovarsi. È li che si ricongiunge con la Oslo vissuta da bambino, con i viaggi a Bali dove la madre risiedeva e i cui ricordi delle locali percussioni suonate nelle cerimonie, che evocavano dei e demoni in qualche modo, si connettono con i martellanti battiti del tempio techno della controcultura berlinese.
Sgorga così Surrender, come un’onda anomala. Uno tsunami delle pulsioni umane. Un’elegia del sesso nelle sue forme estreme. Posizionando miriadi di strumenti all’interno del sassofono e del proprio corpo Bendik trascina l’ascoltatore in una spirale che ripudia ogni classicismo per abbandonarsi a suoni che altro non sono che pulsioni corporali disegnate da note.
Se cercate dalla musica conforto questo non è l’album per voi. Se conoscete il Berghain nelle notti di perdizione e avete amato quella necessità di abbandono del proprio io lasciandovi possedere dal piacere della resa, negli scarni anfratti pervasi da battiti ripetitivi, allora riconoscerete quello che lo schizofrenico sassofono di Bendik Giske vi suggerisce. Tom Ford disse che ogni etero dovrebbe provare una volta nella vita ad essere penetrato. Brian Eno che la resa è qualcosa di strettamente connesso alla religione o al sesso.
Se c’è qualcosa che musicalmente può descrivere il piacere del concedersi questo è Surrender. Il disco è stato registrato nel «posto preferito sulla terra» di Bendik Giske, l’Emanuel Vigeland Mausoleum di Oslo, insieme col produttore Amund Ulvestad, il primo uomo col quale Giske ha fatto sesso. Racconta Bendik: «Le sue pareti sono tappezzate con pitture di atti sessuali, nascite, morti, leccate, erezioni e tette. Tutto ciò che è essenziale all’umanità». Poco altro da aggiungere. Spegnete la luce, alzate il volume, abbandonate ogni appiglio e lasciatevi trasportare nel personale impero dei sensi di Bendik Giske.