L’11 gennaio a Portici (Napoli), in occasione della presentazione del volume Immigrazione e accoglienza di Carmela Ferrara presso la libreria Libridine, si è tenuto un interessante dibattito su femminismo intersezionale e violenza di genere. Ad animarlo Lilia Giugni, ricercatrice presso il Centro Studi di Innovazione sociale dell’Università di Cambridge e co-fondatrice nonché direttrice del think tank britannico GenPol: Gender & Policy Insights.
L’abbiamo raggiunta telefonicamente, per saperne di più circa le sue attività e i suoi studi d’intersezione tra diritti civili e sociali.
Dottoressa Giugni, di cosa si occupa, precisamente, all’Università di Cambridge?
Da ricercatrice e attivista, mi occupo di questioni di genere e giustizia sociale e sono una Fellow della Royal Society of Arts and Commerce.
Femminismo e studi di genere: a che punto è la riflessione e la ricerca scientifica relativamente a questi ambiti?
Oggi assistiamo tanto a un revival dei femminismi e a un’esplosione di interesse per le questioni di genere, quanto a una crisi di rigetto verso queste stesse tematiche. Questa tensione si osserva sia negli studi di genere, come specifico settore accademico, che nella ricerca e nel dibattito multidisciplinare su temi limitrofi. In Gran Bretagna, per esempio, i contributi su questioni legate ai diritti delle donne e delle comunità Lgbtq+ sono in continuo aumento e in costante richiesta, anche come conseguenza del rinnovato attivismo femminista nella società. Al tempo stesso, però, cresce e diventa più virulenta anche l’opposizione ai valori che ispirano questo ambito di studi, un’opposizione che si manifesta, tra l’altro, in varie forme di men’s rights activism, cioè la complessa galassia della militanza anti-femminista.
Come si manifestano queste spinte oppositive e reazionarie?
Si manifestano tramite eventi e outlet di vario genere, atteggiamenti sessisti e omo-lesbo-bi-trans-fobici che cercano legittimazione anche nelle università e nel sistema di produzione dei saperi.
E in Italia a che punto è la notte relativamente all’ambito degli studi di genere?
In Italia, salvo rare per quanto importanti eccezioni, il filone degli studi di e sul genere è sempre stato fragile perché sotto-finanziato e spesso addirittura avversato. Oggi riscontriamo un forte interesse soprattutto nella componente studentesca e tra le ricercatrici e i ricercatori più giovani, ma scontiamo anche la presenza di una radicatissima (e tendenziosa) retorica conservatrice che ha fatto del concetto stesso di genere uno spauracchio da agitare per fini politici. Credo che due strade possano offrire spunti e soluzioni utili. In primis, e fermo restando il valore degli studi di genere come disciplina, è importante incoraggiare l’esplorazione e l’integrazione di prospettive di genere in tutti i settori. Occorre far passare il messaggio che comprendere le questioni di genere significa gettar luce su fondamentali questioni economiche, sociali e culturali, e contribuire a trovare soluzioni efficaci.
Insomma, la sua soluzione è in una prospettiva d’analisi intersezionale?
Senza dubbio. Proprio per questo motivo, una visione intersezionale, se applicata con intelligenza a livello non solo teorico ma pratico, può contribuire a mettere in luce come le discriminazioni e la violenza di genere siano inscindibilmente legate ad altre forme di ingiustizia sociale, e come ‘connettere i puntini’ sia indispensabile sia per comprendere la nostra società che per costruirne una migliore.