Parte la cosiddetta fase due con un graduale programma di riaperture annunciato, ieri sera, dal premier Giuseppe Conte in conferenza stampa. Ma il nuovo decreto del presidente del Consiglio dei ministri, contenente le misure in vigore dal 4 maggio al 17 maggio, continua a essere al centro di polemiche e ha suscitato non pochi attacchi. A partire da quello plateale della Cei, che ha reagito contro il fatto che si escluda «arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo». Tanto che da Palazzo Chigi ci si è affrettati, in tarda serata, a diramare una nota di rassicurazione. «Già nei prossimi giorni – così il testo – si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza».
Ma a reagire, tra i tanti, anche le coppie omogenitoriali di cui si è fatto interprete con un lungo post Sergio Lo Giudice. A pesare sulle famiglie arcobaleno (ma anche sulle persone Lgbti cacciate di casa o trasferitesi altrove per altri motivi), secondo l’ex senatore dem, la lettera a dell’art. 1 del Dpcm, laddove si dice che «sono consentiti solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute e si considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie».
Come osservato da Lo Giudice «congiunti, cioè consanguinei, oppure legati da un rapporto giuridico. Il Dpcm annunciato stasera da Giuseppe Conte apre questa maglia nella fitta rete di limitazioni negli spostamenti degli italiani. Dal 4 maggio fare visita a nonni, fratelli, zii e nipoti sarà annoverato fra le motivazioni idonee ad uscire di casa. Ma ci sono tanti ma. Tante relazioni forti, familiari, non rientrano in questa categoria. Il caso che brucia di più è quello di qualche migliaio di bambini a cui la legge non riconosce il rapporto di filiazione con la seconda mamma o il secondo papá, il “genitore sociale”. Molte famiglie arcobaleno, fra cui la mia, hanno risolto – in parte- il problema ottenendo l’adozione da un Tribunale, ma non tutti i Tribunali italiani si muovono allo stesso modo. In particolare, le coppie lesbiche o gay separate senza il doppio riconoscimento genitoriale già da settimane sfidano decreti e ordinanze per vedere i propri figli, portarseli a casa, svolgere il loro ruolo di genitori. Poi ci sono i nonni e gli zii di questi stessi bambini, riconosciuti attraverso un’adozione particolare che riguarda solo il nuovo (per la legge) genitore, ma non il suo asse familiare.
C’è poi la situazione di tanti e tanti giovani che sono stati cacciati da casa per via della loro omosessualità e che si sono rifatti altrove una vita e delle relazioni affettive forti, familiari ma senza vincoli di sangue. E poi c’è il fenomeno, più generale, di uno spostamento superiore alla media di giovani Lgbti dal sud al nord, dalla provincia alle grandi città, in cerca di un’accoglienza sociale che nella città o nel paesino natio non c’era stata e che nella nuova città – come tanti altri italiani – hanno costruito nuove relazioni di tipo familiare».
L’ex senatore ha poi osservato che, pur parlando «di questo spaccato d’Italia», ne restano «tanti altri che mostrano che non sono in sé il sangue né il vincolo giuridico a costituire una famiglia, ma una libera scelta affettiva. “È l’amore che crea una famiglia” recita il motto di Famiglie Arcobaleno. Se questo è vero, allora sarebbe bene che i provvedimenti del Governo intervenissero sulla quantità delle relazioni sociali consentite dall’emergenza sanitaria, senza esprimere un’implicita valutazione sulla loro qualità. Guai se le misure, oggi necessarie, di contenimento dei rapporti umani si trascinassero dietro improprie connotazioni etiche. Guai se la temporanea perdita di libertà a cui tutte e tutti responsabilmente ci stiamo sottoponendo lasciasse in eredità, finita l’emergenza, un abbassamento del livello di civiltà giuridica e di consapevolezza sociale a cui a fatica eravamo arrivati prima della guerra al virus».