In occasione della Giornata mondiale contro l’omotransfobia del 17 maggio 2020 l’Archivio Centrale dello Stato ha ricordato ufficialmente sulle sue bacheche social e non solo la figura di Luciano Massimo Consoli (Roma, 12 dicembre 1945-Velletri, 4 novembre 2007), uno dei fondatori del movimento omosessuale in Italia. Una sorpresa meravigliosa, dunque, un’ altra, dopo le parole sempre più convinte e decise del Capo dello Stato, Sergio Mattarella e del premier Giuseppe Conte scritte in occasione della fondamentale ricorrenza nella battaglia di contrasto all’odio a sfondo discriminatorio per orientamento sessuale e identità di genere.
A realizzarla proprio l’Archivio Centrale dello Stato che in realtà è stata la prima “istituzione” italiana a riconoscere l’alto valore pubblico, storico, culturale delle battaglie e delle “varie” identità di quella che proprio Massimo Consoli, PapaMax per i suoi accoliti più affezionati, amava definire, infatti, “comunità varia”.
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È dal 1999 che l’archivio di Massimo Consoli è stato riconosciuto come un bene prezioso e valido per la crescita dell’intera comunità nazionale. In quei mesi di fine secolo, l’opera più meritoria per la quale Consoli è ricordato compiva già ben 40 anni. Massimo, all’anagrafe Luciano, aveva infatti iniziato a collezionare materiale di ogni tipo, libresco ma non solo, su quelle che oggi definiremmo “tematiche Lgbt”, sin dal 1959, quando era poco più che un bambino. Aveva soli quattordici anni e in quella curiosissima alba di una collezione poi divenuta pressoché sconfinata, ravvisava egli stesso, nei suoi racconti, il tributo alla necessità che già da ragazzino, evidentemente, Consoli attribuiva a valori come la memoria e la visibilità di quelle persone che l’adolescente Luciano, non ancora Massimo, sentiva vicine a sé e che come lui erano ignorate dal mondo intero. Perché – vale la pena non dimenticarlo, anche per chi vive la propria adolescenza oggi – proprio l’età adolescenziale, dal punto di vista anagrafico e identificativo è la fase nella quale ci si sente più soli e meno capiti dal mondo intero. Tutto ciò, in genere, per un giovane omosessuale è amplificato.
Massimo narrava tutte queste cose col suo piglio memorabile che univa dolcezza, determinazione, talora indignazione, sempre, tuttavia, condite dall’ironia geniale che fu uno dei suoi tratti peculiari, a dispetto di cosa possa lasciare immaginare la figura dell’intellettuale austero che, in un periodo della sua esistenza, a metà degli anni Novanta, decise di autodipingersi ancor di più addosso, incorniciandola anche con una importante barba nera da filosofo orientale.
Genera emozione e commozione, in questo senso, riascoltare la voce stentorea di PapaMax, direttamente proprio da quel 1999, in una storica intervista di Radio Radicale rilasciata a caldo, nelle ore in cui il suo sogno cominciava ad avverarsi con il riconoscimento da parte della Sovrintendenza Archivistica del Lazio dell’interesse per il lavoro di una vita, interrotto forzatamente solo nel 2001 a causa della malattia che sei anni più tardi toglierà al mondo la gioia di condividere i giorni e i ricordi con un’anima imponente e leggera al tempo stesso come fu quella di Massimo Consoli.
Una parte importante dell’opera Andata e ritorno pubblicata da uno dei suoi editori storici, Fabio Croce, è destinata al racconto della cessione del suo Archivio allo Stato, prassi burocratica tormentosa che lo assillò – a suo dire – anche durante il periodo di coma da cui trae origine il titolo del libro.
Una memoria, quella di Massimo, oggi più che mai viva grazie all’impegno di una coppia di radicali d’altri tempi: Alba Montori e Claudio Mori, alla guida della Fondazione Luciano Massimo Consoli, nata praticamente un istante dopo la scomparsa di Massimo. Una associazione benedetta dalla sorella Ines Consoli, da tutti conosciuta come Lellina che oggi, proprio sulla pagina social dell’Archivio Centrale dello Stato ricorda “l’impegno di una vita” che il caro fratello Luciano, per tutti semplicemente Massimo, ha dedicato alla costruzione della memoria della sua comunità senza confini.
E pensare che quella pluridecennale collezione di ricerche, memorie, oggetti, per lunghi anni – come testimoniava egli stesso – fu messa all’indice e perseguitata dallo Stato italiano, tenuta sotto stretto controllo in quanto, a giudizio della morale di allora, considerata in odore di pornografia.
Da ventuno anni, ormai, ne è invece riconosciuto tutto il pregio non soltanto sociale e di costume ma anche, come è giusto che sia, culturale in nome di quelli che poi diventeranno negli anni successivi al 1999, purtroppo pressoché solo nelle università estere, con qualche rarissima eccezione in Italia, i cosiddetti “gay studies”.
Secondo Massimo Consoli l’archivio doveva avere, infatti, proprio la funzione di “raccogliere, conservare e far conoscere quelle voci isolate che hanno urlato il loro diritto all’esistenza e alla libertà, e far conoscere il fiorire (nel passato) e il rifiorire (oggi) della nostra cultura” e nelle sue primitive intenzioni doveva “essere disponibile a tutti: studiosi, intellettuali, giornalisti, ricercatori, studenti medi e universitari, madri di famiglia per comprendere meglio i propri figli, individui alla ricerca delle proprie radici e semplici curiosi”
Un lavoro non facile prima per Massimo, poi per chi l’ha amato e vuole dar seguito a tanti anni di impegno che tuttavia, per citare un altro grande dei nostri tempi, quel Marco Pannella che ci ha lasciato quattro anni fa esatti, è diventata, ora lo si può davvero affermare, “una battaglia storicamente vinta”.
A dircelo è l’espressione operosa e forte dello stesso Massimo in una foto scattata a New York nella redazione del giornale New York Native. Uno scatto in realtà poco conosciuto, scelto dall’Archivio di Stato lo scorso 17 maggio, che ritrae Consoli preso “di buzzo buono”, come amava dire lui, a scrivere raccontare, testimoniare, in quel 1981 newyorchese, anno della tragica scoperta del misterioso virus che poi diventerà drammaticamente celebre come Hiv, all’origine della strage che Massimo sintetizzò, in uno dei suoi numerosi volumi, come Killer Aids.
La vittoria di Massimo Consoli è nelle tracce di memoria che è alla radice della conoscenza ed è la genesi del pensiero stesso.
Per questo, oggi più che mai, di fronte alle nuove generazioni che hanno la fortuna (che però se trattato con semplicismo può diventare anche un rischio, occhio!) di potersi definire “fluide”, vale la pena riaccendere la luce sugli eroi della “comunità varia” e sui loro gesti di identificazione e appartenenza, incentrati, senza facile retorica, sulla ricerca del diritto di esistere. Tra questi, primo fra tutti, c’è proprio lui: PapaMax, quello che, appunto, lo storico Alain Danielou tratteggiò con sagacia come “il papa degli omosessuali”, capace con la forza delle sue parole, evocative quanto i cimeli e le pagine del suo archivio, di unire con agilità le sorti di un aristocratico giurista e latinista ottocentesco quale fu Karl Einrich Ulrichs “nonno del movimento gay” a quelle novecentesche e sottoproletarie, neorealiste e pasoliniane delle “marchette” della stazione Termini.
Il tutto in un confronto quotidiano, vivo e avvincente tra storia e presente che si può declinare nel volto sempre diverso e sempre uguale dell’umanità in tutte le sue più vivaci e libere espressioni che lassù, over the rainbow, tengono insieme una comunità davvero bella nella sua profonda pluralità di voci (se solo una volta per sempre lo si capisse…) che proprio nel segno della memoria può trovare la forza di fare unione e guardare avanti con la rinnovata speranza che figure come quella di Consoli hanno seminato a grandi mani.
Ora più che mai è tempo di raccogliere per preparare a nostra volta la prossima semina. Più che necessaria e per la quale siamo forse già in colpevole ritardo.