Occorre riconoscere a Luciano Moia l’onestà di non aver tentato in alcun modo di presentare il suo ultimo libro per quello che non è. Eppure la tentazione deve essere stata forte, perché il 18 giugno, alla presentazione online del libro Chiesa e omosessualità. Un’inchiesta alla luce del magistero di papa Francesco, le tre associazioni di omosessuali credenti che agiscono a livello nazionale (Cammini di Speranza, la Tenda di Gionata e l’Associazione Fondo Samaria) erano riuscite a radunare poco meno di duecento partecipanti, provenienti quasi esclusivamente dal mondo dei gruppi di omosessuali credenti che, ormai da quattro decenni, chiedono alla chiesa cattolica di riconoscere il valore e il significato della loro esperienza di fede.
Lui, molto correttamente, ha detto che il suo «non è un libro a favore dell’omosessualità» e sarebbe stato strano il contrario, visto che contiene interviste come quelle a padre Víctor de Luna, coordinatore nazionale dell’Apostolato Courage che, riprendendo il percorso dei “dodici passi” degli Alcoolisti Anonimi, tratta l’omosessualità come una dipendenza da superare o come quella di padre Maurizio Faggioni, professore di Bioetica all’Accademia Alfonsiana, che definisce “comprensibili perplessità” le forti resistenze che, durante il Sinodo del 2014, avevano incontrato le domande provenienti dai fedeli sull’effettiva capacità delle comunità cattoliche di accogliere le persone omosessuali «garantendo loro uno spazio di fraternità».
I meriti del suo lavoro sono invece altri. Il primo è quello di aver saputo cogliere, tra le pieghe dei documenti elaborati durante il pontificato di papa Francesco, una novità che i più non sono in grado di cogliere (dopo aver osservato che nessuno di questi documenti, anche quando parla di omosessualità citando il magistero precedente, osserva che è: «Difficile quindi sostenere che questi “silenzi” possano essere letti come una conferma dei documenti del passato e neppure – sarebbe davvero insultante – come banale dimenticanza» e si chiede: «Non può essere invece un invito alla riflessione? Un desiderio di chiarire, verificare, approfondire?»).
Il secondo è invece quello di aver dato spazio davvero a tutti, anche a chi, della condizione omosessuale ha una visione radicalmente diversa da quella negativa che emerge nelle interviste già citate a padre de Luna e a padre Faggioni.
Proprio partendo da questa scelta di affrontare il tema del rapporto tra fede cattolica e vita omosessuale Gianni Geraci, uno che non ha mai nascosto la sua omosessualità e la sua adesione al cattolicesimo, ha osservato che quella fatta da Moia, comprendendo tante realtà differenti, è «molto più universale e quindi molto più “cattolica” di tutte le scelte fatte in precedenza dagli autori che hanno affrontato lo stesso tema». Detto questo ha fatto notare la diversa accoglienza che il libro ha incontrato nei due mondi a cui ha dato ugualmente voce: da un lato gli attacchi con cui gli ambienti vicini a Faggioni e a de Luna parlano di “crociata catto-gay” con tanto di avviso secondo cui: «Ratzinger aveva avvertito già 34 anni fa: nella Chiesa una lobby gay vuole sovvertire l’insegnamento sulla sessualità»; dall’altro l’invito a una presentazione serena in cui si è apprezzata questa tensione nel vivere la chiesa come il luogo in cui si dovrebbe realizzare «la convivialità delle differenze».
A questo punto Geraci si è chiesto fino a che punto certi integralisti cattolici siano davvero capaci di vivere quella universalità e quella capacità di incontro con cui è diverso da loro che da un significato concreto al termine “cattolico”. Il fatto è, ha concluso Geraci, che l’omosessualità, nella chiesa, fa ancora molta paura, soprattutto in quei settori che non sono ancora riusciti a fare i conti con la loro omosessualità (repressa, velata, nascosta, vissuta nell’ipocrisia, ma mai condivisa all’interno della comunità ecclesiale così come raccomanda il motto: «nisi caste, saltem caute»).
Sulla stessa linea anche Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento teologhe italiane, autrice, come Geraci, di uno dei tanti contributi diversi che fanno parte del libro di Moia.
È stata lei a notare quanto sia paradossale l’aggettivo “coraggioso” che Moia aveva utilizzato per descrivere alcune parole di papa Francesco (ve la ricordate per esempio, la famosa frase in cui dice, a proposito di una persona omosessuale: «Chi sono io per giudicare?») e per elogiare la perseveranza di alcuni religiosi che si continuano a spendere per far notare l’urgenza di una pastorale inclusiva nei confronti di omosessuali, lesbiche e transessuali. «Insomma! – ha esclamato suscitando il consenso di tutti – Se si definisce coraggioso chi non fa altro che predicare il vangelo, allora vuol dire che nella chiesa c’è qualcosa che non funziona!». E detto da lei, che ha iniziato ad occuparsi di persone Lgbt dopo che, coinvolta come teologa in un’iniziativa di chiarimenti sull’allarme gender che gli stessi ambienti che ora stanno criticando aspramente il libro di Moia, lanciavano fino a qualche anno fa, è stata accusata di essere “lesbica”. «Mi accusate di essere lesbica? Bene! Visto che non vedo niente di male nell’essere lesbica e che ho una carissima amica che vive in coppia con una sua compagna, da adesso in poi non mi tiro più indietro e, da storica della chiesa e teologa, studierò, parlerò, pubblicherò scritti che si occupano delle persone omosessuali e del loro sacrosanto diritto di sentirsi a pieno titolo parte di quella chiesa che, o è davvero inclusiva con tutti, anche a costo di ripensare alle tradizioni in cui si era addormentata, o chiesa non è».
E per dare concretezza a questo suo impegno ha ricordato il dibattito che attraversò la Chiesa a cavallo tra il III e il IV secolo, quando si approdò, dopo un confronto caratterizzato da alcuni momenti drammatici alla scoperta, nella rivelazione stessa, di tantissimi brani che spingono al perdono e alla riconciliazione.