Massacrano di botte una donna trans, che lavora in condizioni di precarietà e vulnerabilità in un’industria complicata come quella del sesso. È successo solo qualche giorno fa a Napoli. E di che cosa è figlia quella violenza? Io direi del patriarcato, del suo fratello gemello che si chiama binarismo di genere, e anche dell’odio di classe.
Ragion per cui mi pare assurdo impostare la discussione sulla legge contro omo-lesbo-bi-trans-fobia (e contro tutti i crimini d’odio motivati dal genere) sull’inserimento dell’espressione “identità di genere”. Mi si obietterà che questa dell’intersezionalità è un’ossessione politically correct della mia generazione di femministe, che vogliamo a tutti i costi contaminare le lotte e poi finiamo per annacquare quelle delle donne. E allora (ri-)spieghiamolo bene.
Io sono una donna bianca, cis-gender, eterosessuale, istruita. Questi privilegi mi hanno protetta da molte cose, ma non dalla violenza o dalla discriminazione di genere, che hanno effetti pesanti sulla mia vita, la mia salute, la mia sicurezza. Eppure non credo che riconoscere la specificità dell’esperienza di una donna trans (o nera, lesbica, disabile, o più economicamente vulnerabile di me) sminuisca il mio vissuto, o infici le mie rivendicazioni di emancipazione femminista.
Innanzitutto perché ad ogni essere umano, dalla nascita, vengono inculcati ruoli, attributi, norme di comportamento riconducibili a una visione stereotipata del maschile e del femminile (in pratica, un genere, come definito dalla Convenzione di Istanbul). E quella stessa narrazione gerarchica e binaria che opprime me e milioni di altre donne, opprime anche la comunità Lgbtq+ nella sua interezza. Io, poi, trovo abbia implicazioni opprimenti anche per gli uomini cis-gender ed eterosessuali, ma questo è un altro discorso.
Riconoscere la rilevanza del genere come costrutto sociale non nega certo la realtà dell’esperienza corporea (anche se non ricondurrei manco quella a rigidi binarismi: pensiamo solo alle persone intersex). Per forzare le sbarre di una gabbia, però, è importante sapere di che materiale sono fatte, e le nostre esperienze derivano da un complesso intreccio di fattori bio-psicologici e sociali.
E poi chiariamo un equivoco fondamentale: qui non si tratta di giocare a quale gruppo sia più oppresso. E neanche soltanto di riconoscere che tutte le battaglie di giustizia sociale e di genere hanno uguale importanza e dignità. Si tratta di capire come sistemi di potere e complicate catene di disuguaglianze si tengano in piedi gli uni con gli altri. Pensiamo, per esempio, all’oltraggioso coro levatosi in difesa della condotta di Montanelli in Etiopia. Come si fa a non accorgersi che quel che si cerca di difendere, lì, è una specifica costruzione di mascolinità bianca? Come si possono non cogliere le interconnessioni tra i processi di riproduzione sociale delle gerarchie di genere, classe e razza (dove il genere non è certo definito solo dalla biologia)?
Con un minimo di onestà politica e intellettuale, la realtà è tutta lì: non si può mandare all’aria il patriarcato senza far saltare altre istituzioni oppressive. E viceversa.
E allora, partendo da questi presupposti, i punti da dibattere rispetto al legiferare su omo-lesbo-bi-trans-fobia e misoginia dovrebbero essere ben altri. Per esempio, mentre finalmente il mondo si interroga su razzismo di stato e brutalità delle forze dell’ordine, ci sarebbe da discutere dei pregiudizi di genere interiorizzati da chi opera nei nostri tribunali e nei nostri commissariati. Sappiamo fin troppo bene quanto rischino di compromettere l’applicazione di qualunque legge a difesa delle donne o delle minoranze sessuali e di genere. E ci sarebbe da considerare come intervenire a tutela di gruppi particolarmente vulnerabili, come le comunità trans nere e non bianche, e le persone Lgbtq+ in carcere e altri luoghi di reclusione.
Ma posto che questo è il dibattito che abbiamo e ce lo dobbiamo tenere (o meglio, da qui dobbiamo cominciare), iniziamo col respingere con forza al mittente le argomentazioni scorrette e gli equivoci di cui sopra. E poi ripartiamo, naturalmente, dalla vita vissuta di chi subisce ingiustizia di genere in tutte le sue forme. Dalle vittime di abusi omo-lesbo-bi-transfobici, che vergognosamente non hanno protezioni specifiche nel nostro ordinamento. E anche dalle donne, cui l’estensione della fattispecie del crimine d’odio ad azioni motivate dal genere fornisce tutele ulteriori e necessarie (per esempio in casi di abusi sul web).
A questi bisogni sacrosanti, urgenti, la legge fornisce una risposta, magari parziale e contingente, senz’altro da integrarsi con altri interventi, ma pur sempre una risposta.
Personalmente, apprezzo in particolare le disposizioni che sembrano andare oltre l’aspetto puramente penale, e che prevedono di istituire servizi e risorse, anche finanziarie, a sostegno delle vittime di omo-lesbo-bi-trans-fobia, di raccogliere dati, di fare formazione ed educazione. Uno studio recentemente pubblicato da GenPol, il think tank che dirigo in Gran Bretagna, raccomanda proprio una combinazione di simili interventi per far fronte alla violenza digitale di genere. Queste misure vanno nella direzione giusta, perché riconoscono l’intrecciarsi di diverse forme di disuguaglianza e violenza, e l’impatto particolare del fenomeno su persone in condizioni di vulnerabilità economica.
Infine, resta il fatto che mentre noi torniamo indietro di decenni disquisendo del valore giuridico e scientifico di un concetto assodato come l’identità di genere, là fuori c’è chi sbraita che istigare alla violenza contro un gruppo storicamente oppresso è libertà di espressione. Là fuori, su misoginia e omo-lesbo-bi-trans-fobia sempre più di frequente ci si costruiscono campagne elettorali, e pazienza se si gioca con la nostra pelle.
E allora è vero, battersi per i diritti significa strappare a poco a poco, con le unghie e con i denti, spazi di libertà collettiva da ampliare sempre di più. Significa spesso anche accettare di muoversi nei limiti fissati da quello stesso sistema che vogliamo cambiare, e pensare a lungo termine. Però lo strappo serve adesso. E da femminista, da donna che lotta per la sua emancipazione, da alleata della comunità LGBTQ+, non posso che sostenere la mobilitazione Da’ voce al rispetto per pretendere quella legge.