Ieri a Reggio Emilia ha avuto luogo una manifestazione a sostegno del ddl contro l’omotransfobia e la misoginia.
Per fare il punto della situazione su alcuni aspetti implicati dal testo del disegno di legge, abbiamo raggiunto Margherita Graglia, psicologa, psicoterapeuta, formatrice e scrittrice di saggi, che è coordinatrice del Tavolo interistituzionale per il contrasto all’omotransnegatività e per l’inclusione delle persone Lgbt del Comune di Reggio Emilia.
Dottoressa Graglia, nel testo base del ddl in discussione presso la Commissione Giustizia della Camera si parla di orientamento sessuale e identità di genere: quale la differenza tra questi due termini usati a volta in modo improprio?
L’identità di genere si riferisce alla percezione che una persona ha di se stessa come donna, uomo, entrambi (bigender) o nessuno dei due (agender). È dunque un vissuto personale che può non coincidere con il genere assegnato alla nascita, come nel caso delle persone trans. Se l’identità di genere riguarda il rapporto che ciascuno di noi ha con se stessa/o rispetto al genere, l’orientamento sessuale riguarda il rapporto con gli altri, ossia l’attrazione sessuale e affettiva che ci spinge verso gli altri. Siamo abituati a pensare che basti un dato, quello biologico relativo al sesso, per conoscere tutti gli altri: identità di genere, espressione di genere e orientamento sessuale. In realtà vi possono essere molte variazioni; per altro già a partire dal sesso, pensiamo alle persone intersessuali. L’identità umana è complessa, cangiante e dinamica, è il nostro sistema di pensiero e la nostra cultura che tendono a semplificare un universo poliedrico di esperienze. Non è insolito che molte persone, anche professionisti della salute mentale, confondano questi aspetti identitari, così come molto spesso possiamo osservare nell’ambito dei media che diffondono immagini e discorsi in cui queste dimensioni vengono impropriamente sovrapposte. Un antidoto a tutto questo è la conoscenza, conoscere permette infatti di comprendere e integrare anche il piano emozionale.
Una parte del mondo femminista non accetta che nel ddl ci sia il riferimento all’identità di genere. Cosa ne pensa?
L’identità di genere è un costrutto assodato dalle discipline psicologiche a partire dal secolo scorso e si riferisce a una dimensione nucleare e fondante l’identità. L’identità di genere si può presentare nelle varianti cisgender e in quelle transgender e in quest’ultimo caso i dati delle ricerche rilevano chiaramente un dato: le persone trans vengono stigmatizzate, discriminate e aggredite proprio a causa della loro identità di genere variante. Inoltre le discriminazioni perpetrate a causa di questa dimensione identitaria presentano delle specificità, sappiamo infatti che le persone che valicano i confini dell’identità cisgender o trasgrediscono le norme di genere, come quelle gender non conforming, rischiano conseguenze sociali particolarmente pesanti. Un’altra questione, sebbene altrettanto cruciale, è invece quella della differenza uomo e donna a cui tutte le femministe dedicano impegno per superare le diseguaglianze e promuovere pari opportunità. Le donne in quanto tali continuano infatti a scontare una visione svalorizzante del femminile e un trattamento sociale diseguale. Da un lato la transnegatività e la misoginia fanno riferimento ad aspetti identitari diversi e proprio perché contemplano specificità particolari a mio avviso occorre tenerle distinte per poter incidere più efficacemente nell’antidiscriminazione e nella promozione delle pari opportunità, ma allo stesso tempo occorre saperle anche tenere insieme, in quanto la misoginia, il sessismo, l’omotransnegatività hanno una matrice comune: la costruzione socioculturale del maschile e del femminile. Significa pertanto potersi muovere tra riconoscere le specificità e adottare uno sguardo complessivo che sappia muoversi all’interno della stessa cornice. Per esempio da tempo sto lavorando nell’ambito dell’educazione primaria, attraverso corsi di formazione rivolti alle educatrici e agli educatori dei nidi e della scuola d’infanzia per riconoscere gli stereotipi di genere e promuovere un’educazione che valorizzi le differenze. Nel senso che ho detto riflettere con le educatrici e gli educatori sulla costruzione del genere e su come questa venga veicolata con i bambini permette di lavorare per una prevenzione di fenomeni diversi (sessismo, violenza di genere, omotransnegatività) focalizzandosi di volta in volta sugli aspetti specifici ma appunto collocandoli all’interno di una matrice comune.
Dal genere alla transfobia: sono tante le parole utilizzate anche al di fuori del disegno di legge per parlare di discriminazioni e violenze in riferimento alle donne e persone Lgbt: conoscerne il vero senso aiuta a valorizzare le differenze e la democrazia?
Intanto le varie parole utilizzate riguardano tutte le persone, nessuna esclusa. Sono quindi parole che ci riguardano profondamente, fanno parte come ho detto della nostra identità personale e sociale. E ognuno ha la propria identità, anche se siamo abituati a pensare per categorie semplici e contrapposte, quando apriamo queste “parole scatole” scopriamo quanti volti possono assumere, scopriamo una varietà incredibile e anche avvertiamo i cambiamenti rispetto al passato. Stanno infatti emergendo identità inedite, come quelle non binarie e scopriamo così che le identità non sono date una volta per tutte, ma sono in cambiamento, secondo i tempi storici e i luoghi della terra. Scopriamo i vissuti delle persone, le loro storie e questo ci permette di accedere anche alla nostra diversità personale, al nostro essere – ognuno di noi – unico e irripetibile, all’essere ciascuno di noi differente e però accomunati tutti dal bisogno umano di riconoscimento da parte degli altri. Inoltre attraverso la conoscenza di questi termini e dei loro significati possiamo comprendere che non solo le persone appartenenti alle varianti minoritarie scontano stigma e discriminazioni, ma anche chi appartiene alle varianti maggioritarie come ad esempio gli uomini eterosessuali subiscono gli effetti di una costruzione sociale del genere maschile che li impoverisce di fatto del contatto con le loro emozioni o della loro vulnerabilità, che non sono caratteristiche peculiarmente femminili ma umane. Infine, è bene tenere a mente che le discriminazioni non riguardano esclusivamente il target di queste, perché in realtà riguardano tutti, toccano tutte e tutti noi. Sappiamo infatti che la discriminazione è un costo per tutta la comunità perché è disgregante, perché lacera il tessuto sociale. Conoscere queste parole significa riscoprirci tutti insieme nelle differenze e come un organismo anche il corpo sociale non può fare a meno di nessuna sua parte senza che gli effetti nefasti ricadano su tutte e tutti.
Sulla base della sua esperienza quali le piste migliori e le policy più adatte per contrastare le discriminazioni?
Credo che sia auspicabile promuovere azioni che sappiano agire a tutti i livelli – individuale e sociale – tenendo a mente che le rappresentazioni negative che alimentano e mantengono le credenze e i comportamenti dei singoli sono da rintracciarsi in quei processi socio-culturali che trasformano una “difformità” in una “deformità”, che attribuiscono un valore negativo alle differenze di identità di genere e di orientamento sessuale. Come hanno dimostrato le discipline psicosociali le persone esprimono atteggiamenti omotransnegativi, oppure razzisti, non per il bisogno di odiare, ma per un altro bisogno: la necessità di far parte, di essere accettati. E’ la funzione adattiva del pregiudizio – mi uniformo per non essere escluso – un processo ovviamente inconsapevole. Ad esempio le manifestazioni di omotrasnegatività da parte degli adolescenti maschi hanno proprio questa funzione, di adattarsi al gruppo dei pari per scongiurare la minaccia di essere visti come “diversi”. E questo avviene proprio perché nella nostra cultura la maschilità si costruisce tramite l’espulsione da sé di tutte le parti ritenute femminili (emozioni, vulnerabilità) e quindi additabili come segno di omosessualità. Per questo risulta indispensabile promuovere un cambiamento culturale che sappia incidere sulle rappresentazioni culturali e sulle pratiche sociali, e in particolare su una visione del maschile e del femminile più ampia, articolata, non polarizzata e binaria. A questo fine le istituzioni sono in una posizione privilegiata per disinnescare i meccanismi di esclusione sociale e promuovere l’inclusione. È l’idea che ha mosso il progetto innovativo del Tavolo interistituzionale del Comune di Reggio Emilia che raccoglie tutte le istituzioni del territorio nella promozione dell’inclusione delle persone Lgbt. Le istituzioni hanno infatti sottoscritto un protocollo operativo in cui si sono impegnate a realizzare una serie di buone prassi.
La legge sull’omotransfobia è pertanto sollecitata da tutti quei territori, come quello appena citato, che da tempo svolgono un’azione mirata per contrastare le discriminazioni e promuovere l’inclusione. Manca un suggello a livello nazionale, che implementerebbe in modo significativo i processi locali. Una legge nazionale non solo riconoscerebbe come meritevoli di tutela e protezione queste parti identitarie, ma darebbe infatti l’incentivo a processi sociali inclusivi. Rispetto al cambiamento culturale che ho auspicato, le agenzie educative rappresentano uno contesto d’elezione, è infatti a scuola che si incontrano le differenti soggettività in formazione, un luogo in che le persone Lgbt possono trovare un contesto sicuro in cui esprimersi e quelle cisgender/eterosessuali imparare il rispetto. Credo che sia necessario costruire spazi sociali di incontro che utilizzino il linguaggio del confronto. Quando prevale una cultura in cui è premiato lo scontro più che il confronto, in cui l’altro da sé è visto come un nemico e non come una ricchezza da conoscere non può che prevalere una visione negativa della differenza e un modalità pseudo dialogica che innesca di fatto la violenza.
Lei ha pubblicato con la Carocci Le differenze di sesso, genere e orientamento. Buon pratiche per l’inclusione. Cosa l’ha portata a scrivere un tale libro?
È un libro che nasce dal bisogno che ho incontro come formatrice in vari contesti (educativo, psico-socio-sanitario, delle Pubbliche amministrazioni) da parte dei partecipanti: il bisogno di comprendere le identità Lgbt e di avere gli strumenti per realizzare l’inclusione. Un bisogno che viene espresso non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da parte di genitori che hanno figli Lgbt o dalle stesse persone Lgbt. Il testo è infatti rivolto a tutte le persone interessate a comprendere le identità contemporanee. Nella prima parte del libro invito chi legge a esplorare le dimensioni dell’identità sessuale (sesso, identità di genere, espressione di genere e orientamento sessuale), è un percorso che cerco di fare insieme al lettore/lettrice proponendo di volta in volta delle domande, degli spunti di riflessione. Ho cercato di adottare anche per la realizzazione del volume il metodo maieutico che utilizzo sia come formatrice sia come terapeuta. È una modalità che parte dal presupposto che la conoscenza si co-costruisce e pertanto è necessario innanzitutto decostruire insieme i significati culturali assegnati alle identità Lgbt per portare a consapevolezza i processi che attribuiscono un valore negativo a queste identità. E il metodo più efficace è quello delle domande che offre l’opportunità di interrogare ciò che diamo per scontato, che assumiamo come ovvio, ad esempio la coincidenza tra sesso e identità di genere. Per questo ogni capitolo si chiude con una domanda che sollecita chi legge a iniziare a esplorare la tappa successiva del libro. Anche perché è possibile un cambiamento di opinioni e di atteggiamenti solo se ci si coinvolge personalmente in un percorso di conoscenza. L’inclusione non può che nascere da una motivazione interiore e non da una prescrizione. La seconda parte del testo è invece dedicata all’inclusione: che cos’è e come poterla realizzare. Prima occorre infatti capire, poi si può agire, a tuti i livelli: personale, interpersonale e socio-culturale.
Cosa significa parlare di inclusione in riferimento alle persone Lgbti?
Includere, come illustro anche nel mio ultimo libro, non significa solo non discriminare, questo semmai è un primo livello: la piena inclusione si raggiunge con la valorizzazione. Occorre ridare valore alle identità a cui invece è stato tolto, per questo ad esempio una buona prassi individuata da tutte le istituzioni dal Tavolo del Comune di Reggio Emilia è quella della formazione interna del personale. Creare occasioni di conoscenza, confronto, interazione è la strada maestra per sviluppare la motivazione e le competenze per l’inclusione di cui parlavo prima. E poiché lo Stato rappresenta tutte/i i/le cittadini/e è indispensabile che ci siano dispositivi normativi che pongano sullo stesso piano i cittadini Lgbt e quelli cisgender/eterosessuali e che si attivino tutte le istituzioni locali allo scopo di costruire contesti che sappiano riconoscere tutte le differenze, apportando i necessari cambiamenti, ad esempio alla modulistica, al linguaggio, solo per fare alcuni esempi.
Anche lei ha aderito alla campagna nazionale Da’ voce al rispetto. È un buon claim per sensibilizzare la pubblica opinione alla legge contro l’omotransfobia e la misoginia?
Individuare ed esprimere le parole che ci permettono di stare insieme pacificamente, riconoscendo le identità altrui è benefico non solo per i singoli individui, ma anche per la società in generale. Da’ voce al rispetto invita a trovare queste parole e anche a spendersi per questo, ad assumersi la responsabilità del proprio posizionamento. Quando si parla di discriminazioni non vi è l’opzione del silenzio, stare a guardare significa partecipare silenziosamente, come spettatori, alle discriminazioni. Non fare nulla, nei suoi effetti, equivale infatti a discriminare. Il rispetto ci riguarda tutte e tutti e ognuno/a/ di noi può contribuire al cambiamento sociale trovando le parole che uniscono, che includono: dando appunto voce al rispetto. Ed è la propria voce che contribuisce a fare la differenza!