Chiacchieriamo con Giovanni Dall’Orto, che ha appena pubblicato la sua ultima fatica Italia Arcobaleno. Luoghi, personaggi e itinerari storico-culturali LGBT (Sonda, Milano 2020, pp. 240 – con illustrazioni di Massimo Basili), prima parte di un lavoro più ampio che prevede un ampliamento della guida di cultura Lgbt a molte altre città italiane.
Ci vuoi parlare di questo tuo ultimo libro? Che cosa ti ha spinto a scriverlo?
È un tentativo di avvicinare alla storia Lgbt un pubblico meno abituato all’approccio accademico, raccogliendo le informazioni non in ordine cronologico ma seguendo itinerari che conducono a luoghi o opere che sono stati parte di vicende omosessuali del passato. È un modo per rendere “tangibile” la storia, alleggerendone il racconto con aneddoti e fatterelli a volte divertenti, a volte tragici.
In questo momento ci troviamo a Venezia, che è una delle città raccontate nel tuo libro e più ricche di storie gay. Ci potresti raccontare, ad esempio, un episodio significativo sulla Serenissima?
La grande retata all’inizio del 1400, che coinvolse oltre 30 “sodomiti” e che provocò una crisi istituzionale nella Repubblica, in quanto alcuni di loro appartenevano a importanti famiglie nobiliari. Il processo dimostra l’esistenza di una sottocultura omosessuale già in un secolo in cui gli storici anglofoni negano potesse esistere.
Questo processo fu voluto dalle autorità civili e non religiose a differenza di quanto generalmente si crede…
Esiste la leggenda urbana secondo cui la persecuzione dei “sodomiti” fosse affidata all’Inquisizione. In realtà ciò avvenne solo in Aragona e Portogallo. In tutto il resto del mondo cattolico, incluso lo Stato della Chiesa, la sodomia era di competenza dei tribunali e della legislazione laica. Il ruolo della Chiesa stava semmai a monte nel fornire le giustificazioni e motivazioni per le leggi laiche contro i sodomiti.
Esiste secondo te un continuum tra l’omofobia del ‘400 e quella attuale? È cambiata l’omofobia o è sempre la stessa?
Io penso che la ragione base dell’omofobia sia dissuadere dalle scelte alternative alla presunta unicità della famiglia eterosessuale, che però cambia di secolo in secolo. Pertanto le strategie per difenderla cambiano a loro volta di secolo in secolo.
Secondo te quali sono i tratti distintivi dell’omofobia odierna?
La coscienza di combattere contro uno stile di vita che si è posto come alternativo a quello considerato l’unico naturale. Per affermare l’unicità dell’orientamento eterosessuale, essa è disposta a usare strategie che sono esattamente inverse a quelle che utilizzava in passato: per esempio, fino al dopoguerra il concetto di ”naturale”, parlando di famiglia, indicava ciò che era sbagliato. La famiglia ”giusta” era la famiglia legittima. Il figlio ”naturale” era il figlio ”bastardo”, contrapposto al figlio ”legittimo”. La famiglia naturale è quindi una invenzione culturale degli ultimi 20 anni.
Tu hai aderito alla campagna Da’ voce al rispetto, finalizzata a ottenere una buona legge contro l’omofobia sul modello delle leggi che abbiamo ormai in tutta la vecchia Europa. Secondo te perché è necessaria anche in Italia sia pure con decenni di ritardo?
In realtà quel che sostengo è la necessità di una legge contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Il riferimento all’orientamento sessuale comprende quindi anche le ipotetiche persecuzioni degli eterosessuali perseguitati per la loro eterosessualità. Questo risponde a chi sostiene che vogliamo leggi speciali. Vedremo poi quanti saranno gli eterosessuali che la utilizzeranno. La stessa resistenza a una legge che gli oppositori sostengono essere totalmente inutile ne dimostra la necessità: se davvero fosse stata inutile, non sarebbe stato necessario combatterla per due o tre decenni. La battaglia Lgbt in Italia non è stata ancora vinta sul piano culturale per cui è opportuno che la legge sancisca che non sono leciti, nel senso di legittimi, comportamenti che incitano alla violenza in primo luogo fisica ma non solo, contro le persone omosessuali.
Veniamo alla questione centrale di questa intervista, la storia vista da un punto di vista omosessuale. Tu hai scritto il fondamentale e monumentale volume Tutta un’altra storia, di cui si è molto discusso e di cui è giusto continuare a discutere a lungo perché anche in Italia si arrivi non solo alla consapevolezza del proprio passato come collettività Lgbt ma sia possibile inaugurare corsi universitari di Gay Studies. Dal tuo punto di vista quali sono gli elementi fondamentali e necessari per una storia omosessuale?
La storia omosessuale è stata il prodotto di un periodo in cui la realtà omosessuale si è autoconcepita come comunità e, quindi, con un destino e una storia comune passata e futura. L’attuale e prevalente vulgata queer rifiuta invece l’idea stessa di comunità riconoscendo esistenza unicamente all’individuo. In questo nuovo contesto la storia omosessuale diventa impossibile in quanto a essere possibile è solo la storia di individui o, viceversa, di ampie astrazioni come le “narrazioni del potere”.
Ma perché è necessaria una storia?
Questa è una domanda a cui la cultura della globalizzazione risponderebbe che in effetti non è necessaria. La storia mette l’accento sulla differenza di percorsi mentre la globalizzazione ne riconosce uno solo uguale per tutti: ecco perché noi italiani ,che non abbiamo mai avuto un problema nero nei termini americani, siamo chiamati a riflettere sulla White Fragility e sul Black Lives Matter. Se invece riteniamo che le società umane vengano da storie diverse e che queste storie vadano rispettate, non si vede perché soltanto la storia degli omosessuali non sia degna di tale rispetto. Come militante gay, inoltre, la storia mi ha sempre aiutato a capire i motivi dei difetti del mondo gay italiano.
In riferimento a uno storico e saggista come te si parla ovviamente dell’importanza dell’ultima tua fatica. Ma io vorrei parlare anche di un altro lavoro che hai nel cassetto: il Checcabolario, ovvero l’analisi linguistica dei vari modi di parlare di omosessualità. Prendiamo, ad esempio, un termine usato contro di noi come una clava: frocio. Nel tuo checcabolario come lo descrivi?
Frocio è un termine di origine romana, che in origine significava straniero e, in particolare, francese, con connotazione negativa. Attraverso il gergo della malavita passò a definire l’individuo infido e anormale e quindi, inevitabilmente, gli omosessuali. La sua diffusione in italia è recente e risale ai romanzi e al cinema “realisti” del dopoguerra. È interessante notare come i termini dispregiativi in uso oggi siano tutti recenti, al massimo un secolo e mezzo: questo segnala un cambiamento sociale di mentalità verso il fenomeno omosessuale a metà ‘800, confermato dalla ricerca storiografica.
E la leggenda delle fascine di finocchio gettate sui roghi dei sodomiti?
È quella che in linguistica si chiama paraetimologia o etimologia popolare: il significato apparente sollecita l’invenzione di una storiella a spiegazione. Non esiste nessuna attestazione dell’uso delle fascine di finocchio. Il rapporto fra finocchi e omosessuali è dato dal fatto che i semi di finocchio erano la droga dei poveri che non valeva nulla: da qui la definizione di finocchio per uomo privo di valore che, come tale, + attestata già in Dante. La diffusione italiana di questo uso, che è toscano, risale anch’essa al dopoguerra.
Quali sono i progetti che hai ancora nel cassetto oltre al Checcabolario?
Cercare di salvare quanto piú possibile della stagione di militanza di cui ho fatto parte, di fronte al “cambio di paradigma” che nega l’esistenza stessa dell’omosessualità.