Una vittoria schiacciante per i Laburisti in Nuova Zelanda, che, col 49,10% dei voti, hanno ieri battuto i Nazionalisti, guidati dalla tatcheriana Judith Collins, che si sono attestati al 26,81%. Il Partito Laburista della Nuova Zelanda ha così ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (64) al Parlamento monocamerale.
Riconfermata, dunque, per un secondo mandato da prima ministra la 40enne Jacinda Kate Laurell Ardern, cui va tutto il merito dello straordinario risultato. D’altra parte sempre a lei si deve la rimonta del Partito Laburista nel 2017, quando, dopo averne assunto la leadership, lo portò al successo elettorale in sole sette settimane.
Nata il 26 luglio 1980 ad Hamilton da famiglia mormone (il padre era poliziotto mentre la madre lavorava come cuoca in mense scolastiche) e iscrittasi appena 17enne al Partito Laburista, Ardern ha frequentato l’università di Waikato e conseguito, nel 2001, il grado accademico del baccellierato in Scienze delle Comunicazioni di politica e pubbliche relazioni. Dopo l’esperienza di ricercatrice presso gli uffici dell’allora ministro della Giustizia Phill Goff e, poi, dell’allora premier Hellen Clark, è vissuta per un breve periodo a New York, prestando servizio di volontariato in una mensa per i poveri e lavorando a una campagna per i diritti di lavoratrici e lavoratori.
Nel 2006 si è trasferita a Londra, dove ha lavorato nel gabinetto di Tony Blair. Nel 2008 ha assunto l’incarico presidente dell’Unione internazionale della Gioventù socialista e, sempe, in quell’anno è rientrata in Nuova Zelanda, dove l’8 novembre è stata eletta deputata tra le file del Partito Laburista.
Durante il suo primo mandato da prima ministra, Ardern ha saputo coniugare gentilezza a ferrea fermezza, dando prova di saper affrontare, lo scorso anno, i due drammatici eventi che hanno sconvolto il Paese: l’attentato anti-islamico alla moschea di Christchurch (15 marzo), a seguito del quale morirono 51 persone, e l’eruzione del vulcano di White Island (9 dicembre), che costò la vita a 21 turisti.
Dopo l’attentato fecero il giro del mondo le sue foto a capo coperto per esprimere cordoglio alla comunità islamica, mentre ebbe straordinaria risonanza mediatica il discorso a commemorazione delle vittime pronunciato alla Camera dei Rappresentanti, quando riferendosi all’attentatore, affermò: «È un terrorista, è un criminale, è un estremista. Ma nel parlarne lo farà senza nominarlo. E imploro tutti voi e ogni persona: “Pronunciate forte il nome di chi è rimasto senza vita, non quello di chi gliel’ha tolta”. Forse cercava notorietà, ma noi in Nuova Zelanda non gli daremo nulla. Nemmeno il suo nome».
Icona liberal e anti Trump, Ardern, che, a inizio anno ha dovuto fare i conti con un calo di popolarità legato all’accusa d’inadempienza di promesse elettorali (prezzi accessibili delle case e diminuzione della povertà infantile che affligge un minore su otto, particolarmente nella comunità maori), ha saputo riconquistare velocemente i consensi della popolazione neozelandese durante la pandemia da Covid-19. Quando in marzo si contavano solo 102 casi di contagio, Ardern ha imposto un lockdown rigoroso, facendo così della Nuova Zelanda uno dei primi paesi al mondo a isolarsi. Dopo cinque settimane di confinamento, il bilancio finale è stato di soli 2000 contagi e 25 morti su una popolazione di cinque milioni di abitanti.
Un risultato che l’elettorato neozelandese ha ieri riconosciuto a colei, che, durante la fase acuta della pandemia, non ha mai parlato, come tanti leader di governo, di “guerra al Covid-19″ ma ha lanciato il costante appello: «Uniti contro il Covid-19» definendo il Paese «la nostra squadra di cinque milioni»..
La riconferma di Jacinda Ardern è stata salutata con successo anche dalle associazioni Lgbti+. La premier, che nel 2017 si è dichiarata agnostica, ha infatti abbandonato nel 2005 la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi giorni, perché in conflitto con le sue vedute, soprattutto in tema di diritti delle persone Lgbti+.
Non a caso, il 5 ottobre, Ardern, già in passato critica nei riguardi delle cosiddette terapie di riorientamento sessuale, aveva promesso, in caso di vittoria, di vietarle nel Paese. Chiarissimo in quell’occasione il deputato laburista e gay dichiarato Tāmati Coffey: «Le terapie di conversione provocano gravi problemi di salute mentale, tra cui depressione, ansia e idee suicide. Ecco perché saranno bandite dal rieletto Governo laburista. Si tratta di pratiche che causano danni e sono fuori luogo nel Paese gentile, inclusivo e moderno che siamo».