45 anni fa veniva massacrato all’Idroscalo di Ostia uno degli intellettuali più brillanti e controversi della storia della civiltà letteraria italiana del XX secolo: Pier Paolo Pasolini. Poeta dello scandalo, intellettuale eretico e corsaro, opinionista sempre controcorrente, Pasolini – al di là degli indubbi meriti letterari – mostrò alla società italiana e alla borghesia benpensante dell’epoca il volto scabro e tagliente della verità.
In un biopic americano del 2017, dedicato alla vita e alle opere del grande scrittore omosessuale Armistead Maupin, autore della miniserie di culto I Racconti di San Francisco, il romanziere statunitense rimarca quanto sia importante, per un uomo e per un intellettuale, essere sempre sinceri al di là di se stessi.
Ecco, Pasolini, perfino nelle sue posizioni più critiche e iconoclaste, negli atteggiamenti più sulfurei, nelle esternazioni apparentemente anti-progressiste, fece della sincerità un modello imprescindibile della sua esistenza.
D’altronde, fu proprio la sincerità con cui si presentava quale “unico” poeta italiano dichiaratamente omosessuale, in un contesto socioculturale profondamente omofobo, a decretarne la morte violenta. Certo, in molti sostengono – ragionevolmente – che l’omicidio di Pasolini non sia stato un omicidio a sfondo omofobico, ben altre motivazioni ne furono scaturigine. Ma il clima sociale in cui si svolsero i fatti, il modo in cui fu congiurato l’agguato e perfino il “set” che fu individuato per la “mattanza”, esprimono una temperatura criminale decisamente omofoba.
Ma ciò che importa, in questo breve ricordo del poeta, non è la sua morte ma la sua vita: la lezione di sincerità che ci ha tramandato e che, d’altronde, ha restituito ai lettori in tutte le sue opere, a partire dalla lettera manifesto apparsa su Il Corriere della Sera, il 14 novembre 1974, in cui celebrava il coraggio intellettuale della verità.
Un coraggio intellettuale della verità che, negli ultimi anni, è stato raccolto da alcuni letterati italiani che – proprio in virtù di quel sentimento della verità tanto caro a Pasolini – hanno cercato di sanare ferite e mutilazioni che riguardano la biografia di insigni personalità della nostra storia culturale e, dunque, della nostra stessa identità. Ci riferiamo, ovviamente, a studiosi del calibro di Francesco Gnerre, Luca Baldoni, Stefano Paolo Giussani, Gian Pietro Gentilucci Leonardi e Franco Buffoni, i cui lavori vengono talora criticati perché, secondo i detrattori, opererebbero una lettura troppo “rigida” e “monocorde” dei dati biografici in chiave “omosessuale”. Come accaduto ultimamente per il saggio di Franco Buffoni Silvia è un anagramma (Marcos y Marcos, 2020), in cui l’autore documenta con puntualità e accuratezza la natura del sentimento che accese il grande poeta recanatese verso il suo ospite napoletano, Antonio Ranieri.
Insomma, se vogliamo cogliere appieno lo spirito “rivoluzionario” e “scandaloso” del messaggio pasoliniano, forse possiamo trovarlo proprio io quel coraggio intellettuale della verità che, ancor oggi, nella società post-industriale in cui viviamo, appare quanto di più inconciliabile con la pratica politica. Del resto, George Orwell in La fattoria degli animali scriveva: «Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» ed era questo un adagio assai caro a Pasolini.