Si produce un effetto straniante quando un ricordo pubblico non coincide del tutto con la memoria personale e nemmeno con quella politica. Questo è accaduto in me leggendo della morte di Rina Macrelli, novantunenne, all’ospedale di Cattolica (Rn) nella notte tra il 6 e il 7 novembre.
Macrelli è stata una notevole intellettuale, saggista, conduttrice Rai, sceneggiatrice e assistente alla regia, sia per il cinema che per la tv, incrociando molti ambiti in un certo senso pasoliniani: dal cinema alla storia contemporanea e alla letteratura dialettale. Fra l’altro, la sua vertiginosa biografia ci rimanda a collaborazioni con Liliana Cavani – Francesco d’Assisi (1966) e Galileo (1968) – e Michelangelo Antonioni, per il quale fu assistente alla regia di Zabriskie Point (1970). Notevoli anche le collaborazioni giovanili con René Clement ne La diga sul Pacifico (1957) e con Roger Vadim in Et mourir de plaisir (1960). Ugualmente interessante la sua attività in Rai: fu assistente alla regia di Alessandro Blasetti ne La lunga strada del ritorno (1962), collaborò con Leandro Castellani per Angelo Roncalli (1964) e con Sergio Giordani per La casa Guanella (1964) e Galileo Galilei (1964). Condusse anche, con una sensibilità ante litteram per la dimensione lesbotech e cyborg, un programma di divulgazione scientifica in Rai, Mondo d’oggi, tra il 1962 e il 1964.
Quel di cui non c’ è ancora traccia e che i link per ora non dicono, o dicono citando solo il suo testo su Anna Maria Mozzoni (L’indegna schiavitù, Editori Riuniti, 1980), è il suo itinerario lesbofemminista. Rina, incontrata a fine anni Ottanta in una cena romana da una me ventenne e un po’ sperduta di fronte alla potenza del pensiero lesbofemminista nel suo sprigionante divenire iniziale, faceva sgorgare ovunque la sua intelligenza, fra sorrisi, sguardi e partecipazione emotiva. Parlava di lesbismo come di un orizzonte libero e pieno di novità da scoprire, amava la musica, aveva occhi grandissimi e capelli non governati. Incluso qualche aneddoto, per me golosissimo, su avventure omosessuali anni ‘60 fra donne della generazione di mia madre. Poteva essere la Gorgone lesbica e femminista poi tratteggiata da Michèle Causse in Contre le sexage. Le bréviaire des Gorgones(Balland, 2000). Accennò anche a un suo libro in fieri sulla storia delle lesbiche, che purtroppo non fu mai pubblicato. Spero ne esista ancora una copia in qualche cassetto, perché la sua ricerca era una delle più acute e documentate che mi sia capitato di scorgere.
Così la ricorda l’attivista Carla Catena della rete Lesbicx: «1991, io 27 anni, da soli due anni consapevole e visibile come lesbica. L’anno della prima settimana lesbica, un evento epocale per noi lesbiche italiane. Tante emozioni e tanto piacere in quei giorni, tanta cultura e soprattutto politica. Tra tutte Rina Macrelli. Già grande, forte carismatica, simpatica e colta. Parlava e parlava tanto della storia lesbica. Ci diceva di studiare, ma anche di parlare e di dire quello che pensavamo».
La sua intelligenza brillava, folgorava, appariva sempre in nuovi angoli, come testimoniano – nella scrittura – i due saggi pubblicati sullo Squaderno I, una miscellanea di creatività e intelletto lesbico uscita per la Estro di Liana Borghi e Rosanna Fiocchetto nel 1989. In Vacca d’Israele, questo il titolo del primo saggio, Macrelli esplorava certi sonetti veneziani satirici tra fine Settecento e inzio Ottocento, cercando di capire quali fossero i nomi e le vite lesbiche reali in essi impaniate, per liberarle e destinarle a una conoscenza biografica e storica. Nel secondo, intitolato Giovanna d’Arco e “cose del genere”, c’è un brillante punto di vista lesbico sul passing di Giovanna, anticipatorio di quella che oggi potremmo anche declinare come “identità di genere”, e, allora come ora, l’interlocuzione è con una certa declinazione del femminismo della differenza.
Le parole finali del saggio di Rina Macrelli meritano di essere citate come esempio del suo stile adamantino ed omaggio alla sua incancellabile esistenza lesbica: «Mi limiterò a notare che Giovanna una “genealogia femminile” l’aveva trovata anche lontano da mammà, durante quello che Muraro chiama il suo “esilio tra maschi”. Difendendosi da uno dei due capi d’accusa, che era appunto di essersi attorniata di maschi, rispose che era inevitabile per una capitana. Spiegò: “Quando stavo sul campo e non potevo farmi accompagnare da una donna, dormivo tutta vestita e armata”. Ma chiarì: “Quando alloggiavo in una casa, il più delle volte c’era una donna con me”».