Il 1° dicembre di 50 anni fa il Parlamento approvò in via definitiva la legge che introduceva anche in Italia il divorzio per quelle coppie eterosessuali la cui relazione era esaurita da tempo. Non era una legge molto permissiva: prima del divorzio definitivo occorrevano ben cinque anni di separazione, poi ridotti successivamente a due, per finire col divorzio breve in caso di consensualità e di assenza di prole. I partiti che votarono il divorzio non esistono più: erano il Pci di Luigi Longo, il Psdi di Giuseppe Saragat, i liberali di Giovanni Malagodi, i repubblicani di Ugo La Malfa, i socialisti di Pietro Nenni. Votarono contro i “missini” di Giorgio Almirante e i democristiani di Amintore Fanfani.
Nomi che ai giovani d’oggi non dicono molto, ma per noi erano leader di cui sentivamo parlare ogni giorno. Di lì a poco per volere soprattutto del Vaticano (la Dc ne avrebbe fatto volentieri a meno) venne indetto un referendum abrogativo, che si tenne nella primavera del 1974 con una campagna molto combattuta e dai toni assai aspri. Anche i comunisti avrebbe volentieri evitato il referendum, perché sapevano che i ceti popolari di riferimento erano impregnati di una cultura familista ed erano piuttosto conservatori in materia di costumi e diritti civili. Il divorzio veniva visto in sostanza come faccenda della borghesia e dei ceti medio alti. Erano così convinti che la partita potesse andare male che non avevano nemmeno prenotato la piazza per festeggiare la sera dei risultati. Lo fecero i Radicali, che presero piazza Navona a Roma e ospitarono i festeggiamenti di tutti i partiti referendari la sera del voto, quando ben il 59% dei votanti si pronunciò per mantenere in vigore la legge vigente.
Avevo 19 anni e feci lo scrutatore, primo voto in vita mia e primo impegno nel seggio che era in una scuola della periferia bolognese, che ancora oggi ospita le operazioni di voto. Ricordo perfettamente da giovane contestatore il comizio assai seguito di Amintore Fanfani a Bologna, in una piazza Maggiore piena, quando disse che se passava questa legge le domestiche sarebbero fuggite con le mogli, bizzarro riferimento al lesbismo in un’epoca dove l’argomento era ancora fortemente tabù.
Quella vittoria segnava il profondo cambiamento che, nel frattempo, era intervenuto nella società, nella cultura, nel costume e nelle relazioni individuali. La richiesta e le rivendicazioni di una maggiore libertà, anche in campo giuridico, si stavano facendo strada con forza nella società e aprivano nuovi scenari anche per il movimento gay (allora si chiamava semplicemente così). Seguì la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza e anche sull’aborto i democristiani imposero un referendum che ebbe un esito persino più marcato del precedente: 69% contro l’abrogazione della legge (se si votasse oggi si parla addirittura di un 80-90% di contrari motivo per cui nessuno si sogna di riproporlo).
Anche la legge sull’aborto è importante per il movimento Lgbt, perché segnava la separazione netta tra sessualità e riproduzione, dando valore all’autonomia del sesso e del piacere sessuale indipendentemente dal contesto familiare tradizionale dando in questo modo cittadinanza anche alla sessualità omosessuale.
La questione “familiare” è stata sempre al centro del nostro dibattito. La mia militanza Lgbt coincide con l’inaugurazione del Cassero di Porta Saragozza a Bologna, con un manifesto che vede due ragazzi abbracciati perché era evidente che la relazione omosessuale (d’amore, di amicizia, di solidarietà, di condivisione) era diventata centrale e richiedeva una elaborazione culturale e un impegno legislativo specifico. A metà degli anni ’80 ci venne detto da vari politicI di primo piano che era impossibile legiferare in materia. La smentita arrivò presto dalla Danimarca, che nel 1989 varò la “partnership registrata”, una norma quasi identica al matrimonio etero senza l’adozione, l’inseminazione assistita e il matrimonio religioso (nell’area scandinava la religione protestante è ancora religione di Stato). Noi eravamo impegnatissimi nella lotta alla diffusione dell’Hiv (scrivo queste note proprio nel giorno del 1 dicembre, Giornata internazionale della lotta all’Aids) e la lotta per i diritti delle coppie Lgbt aveva assunto l’importanza un po’ moralista in opposizione alla vituperata “promiscuità” sessuale.
La battaglia si intensificò a metà degli anni ’90 con i registri delle unioni civili nei Comuni e infine approdò alla Camera con la calendarizzazione del Pacs (Patto civile di solidarietà) nell’autunno del 2005 con la proposta di legge di cui ero il primo firmatario.
Come tutti sanno la legge sulle unioni civili è stata approvata in via definitiva l’11 maggio del 2016 in mezzo a mille polemiche e preceduta da ben due Family day, il primo con adesione vaticana, il secondo senza. Si minacciò anche qui il referendum abrogativo ed è bene ricordare che i vari promotori (Roccella in primis, poi Giovanardi & company) dopo aver dato vita al comitato ed aver depositato il quesito in Cassazione non riuscirono a raccogliere nemmeno una firma, primo caso la mondo di un referendum perso senza nemmeno la sua celebrazione. Oggi le coppie unite civilmente sono decine di migliaia e nemmeno la campagna del caporale leghista, a suo tempo, riuscì a fermarle nei comuni.
Le relazioni familiari sono quindi molto cambiate da 50 anni a oggi. Ormai la famiglia tradizionale rappresenta meno del 40% dei nuclei familiari. Le relazioni tra le persone sono caratterizzate da un andirivieni vorticoso legato alla precarietà dell’economia e del lavoro e dall’idea che esitono molte forme familiari diverse da quella tradizionalmente intesa. La vecchia struttura del destino personale scritto una volta per tutte e fatto di nascita, crescita, fidanzamento, matrimonio, riproduzione e fine vita non è più condiviso nei fatti da milioni di persone, che intendono costruire le proprie relazioni in un ambito di libertà e pluralità di istituti giuridici conseguenti. La tragedia del Covid, dove l’85% delle infezioni avviene in ambito familiare, impone un’ulteriore discussione sulla necessità di una rivoluzione sociale e urbanistica volta a disegnare un nuovo diritto di famiglia (la legge per allora innovativa è del 1975) unitamente a una rivoluzione urbana che superi le artificiose separazioni della vita per età e per destino, costruendo luoghi più comunitari e meno solitari, dove amicizia, amore e solidarietà siano il tratto distintivo del nuovo assetto sociale.