Professore a contratto di Scienza politica presso la Fondazione universitaria di Mantova e responsabile scientifico del Centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità dell’Università di Verona, Massimo Prearo si è fatto conoscere nel panorama accademico per gli studi su genere, politica e sessualità e, soprattutto, per quelli sui movimenti “no gender” tanto italiani quanto francesi. Sotto quest’ultimo rispetto sono numerosi e di peso interventi o pubblicazioni di vario tipo, tra le quali è da segnalare La crociata “anti-gender. Dal Vaticano alle manif pour tous scritto con Sara Garbagnoli (Torino, Kaplan 2018, pp. 84).
Da poco più di un mese Prearo ha alle stampe con le edizioni sestesi Mimesis il corposo volume L’ipotesi neocattolica. Politologia dei movimenti anti-gender. Lo abbiamo raggiunto per conoscerne gli aspetti essenziali.
Professore, iniziamo dalla frase di George Perec messa emblematicamente alla porta della sua introduzione al libro? Che rapporti ha con contenuti e metodo di ricerca?
Perec è un autore che ho scoperto a Parigi e che mi accompagna da diversi anni – un autore sperimentale che entra nelle parole, nelle strutture delle frasi e nelle convenzioni della scrittura per metterle alla prova e in crisi, sperimentando nuove forme. In questo testo, Pensare/classificare, Perec esplora – con accesa ironia – il pensare come attività di classificazione della realtà. Il lavoro di ricerca di fatto è un modo per dare forma, definire, qualificare, e anche classificare la realtà, per comprenderla, per far vedere ciò che nell’opacità di quella che la storica Joan Scott chiama “l’evidenza dell’esperienza” a volte non riusciamo bene a inquadrare e a cogliere. Come scrive Perec, però, la realtà non è mai esaurita nelle categorie del pensiero e della ricerca. La realtà eccede la teoria. Allora, per chi fa ricerca, per chi scrive della realtà, per chi osserva e mette delle parole sulle cose si pone una questione cruciale: che fare di questa eccedenza? Ed è una questione metodologica, ma anche e soprattutto politica. Appunto, i movimenti che lottano contro la cosiddetta “teoria del gender”, per “la vita” o per “la famiglia” pensano che quella eccedenza di realtà che sfugge alle categorie, che ne inventa di nuove demolendo la tradizione o denunciandone il carattere oppressivo, dovrebbe essere silenziata, corretta, normalizzata, eliminata.
Ci parli della differenza tra “ideologia gender” e “teoria gender” da lei elaborata nella prima parte del testo?
Sappiamo che i soggetti e i movimenti che usano queste espressioni, lo fanno ormai come fossero sinonimi intercambiabili. Risalendo alle origini di queste espressioni, ho notato che a metà degli anni ‘90, quando è emerso per le sentinelle cattoliche e per il Vaticano il problema del genere, il teologo belga Michel Schooyans utilizzò per primo nel 1997 l’espressione “ideologia del genere” – in un libro la cui prefazione è firmata dall’allora cardinale Ratzinger – ma non “teoria del gender”. Schooyans utilizza l’espressione “ideologia del genere” per dare corpo a questa idea secondo cui il genere, in quanto concetto, prodotto del pensiero e della teoria, sarebbe uno strumento ideologico, simile a quelle che comunemente vengono definite ideologie, come il comunismo, e per mostrare la sua natura pericolosamente “anti-naturale”, in conflitto con la “verità” descritta dalla religione. L’espressione “teoria del gender” è arrivata più tardi per dire fondamentalmente la stessa cosa, ma viene utilizzata soprattutto nella mobilitazione politica. Nel libro discuto questa distinzione perché ci permette di comprendere meglio il momento teologico dell’elaborazione del problema “gender” da parte dei laboratori del sapere cattolico (fine anni ‘90 inizi anni 2000), e il momento politico della mobilitazione (anni 2010). Parlare di “teoria gender”, l’espressione più diffusa, permette a questi soggetti e a questi movimenti di sganciarsi dall’immagine di una lotta politica (di destra) contro un’ideologia percepita come erede del materialismo marxista (di sinistra), per porsi a paladini della “natura” e della “realtà” super partes, contro il lavoro teorico che quella realtà e quell’idea di natura osserva, studia, analizza e critica – come fa il concetto di genere, per restare in questo campo.
Cosa significa “neocattolico”?
Nel corso delle interviste che ho realizzato con preti ostili a questi movimenti, e con molte persone cattoliche che non riconoscono la legittimità di operazioni come i Family Day o il World Congress of Families, ho potuto osservare una distanza abissale tra il cattolicesimo “identitario” promosso dalla mobilitazione anti-gender e quello di persone (e anche gruppi e movimenti) che si riconoscono in un cattolicesimo “di apertura”, disponibile in qualche modo al cambiamento (per usare le categorie del sociologo della religione Philippe Portier). Mi sono chiesto allora: è giusto definire i movimenti anti-gender come movimenti cattolici? Il loro posizionamento nel campo del cattolicesimo è così evidente e “naturale”? Tutt’altro. Ho utilizzato il termine “neocattolico” nell’ottica di quel necessario lavoro di classificazione della realtà che descrivevo prima, per meglio cogliere il posizionamento specifico di questi movimenti anti-gender nel campo della religione. Ma anche, al tempo stesso, per meglio comprendere la novità che essi introducono rispetto ai movimenti cattolici tradizionali. Per riassumere, quando parlo di progetto neocattolico, parlo di un progetto di movimento che ha queste tre caratteristiche fondamentali: si muove in relativa autonomia rispetto alla gerarchia della Chiesa (extra-ecclesiastico); si muove su un piano di azione che non è religioso, ma nel loro sistema identitario, “antropologico” (extra-cattolico); più che nel campo religioso, nasce e si muove nel campo politico in uno scambio continuo tra partiti e movimento (intra-politico). In questo senso parlo dei movimenti anti-gender, pro-life e pro-family di ultima generazione come di movimenti neocattolici.
La reazione neocattolica è contro la nuova declinazione globale dello stato di diritto, che lei chiama “democrazia sessuale”, o è un attacco alla democrazia in sé?
Uso il concetto di democrazia sessuale, proposto dal sociologo Éric Fassin, perché permette di descrivere una svolta epocale che affonda le sue radici storiche nelle lotte di liberazione e rivoluzione sessuale dei movimenti femministi, omosessuali e trans, ma che prende una forma istituzionalizzata a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, nel corso di quella che nel libro definisco la rivoluzione democratica. Ovvero l’istituzione nelle norme, nei trattati, nelle carte costituzionali, nelle leggi, dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+. Da un lato, questi diritti vengono riconosciuti come diritti umani che un regime democratico dovrebbe difendere e promuovere, dall’altro questi “nuovi diritti umani”, come li chiama Bobbio, finiscono per diventare un’unità di misura della democrazia: più diritti, più democrazia; meno diritti, meno democrazia. Contestare i diritti Lgbtqi+, come fanno i movimenti neocattolici, significa contestare di fatto gli sviluppi contemporanei della democrazia, e questa non è una mia interpretazione! È un punto centrale dell’apparato teorico-politico neocattolico: il problema di fondo, l’origine del male, per riprendere il titolo del primo capitolo, non è tanto “il gender”, ma la democrazia che ha reso possibile l’introduzione nelle norme del concetto di genere; non sono tanto le persone Lgbtqi+ (un po’ sì comunque), ma la democrazia che ha reso possibile il riconoscimento delle coppie gay e lesbiche, o la depatologizzazione progressiva dell’identità trans. O ancora, per citare un esempio degli ultimi giorni, che potrebbe decretare la fine della trasmissione patriarcale del cognome del padre. In tutti questi esempi, per questi movimenti, il problema di fondo è la democrazia.
In cosa consiste, in Italia, quello che lei chiama “paradossale successo del modello ecclesiastico“ dopo la crisi della Dc?
Prendiamo due esempi. Il referendum del 2005 sulla legge 40 e il primo Family Day del 2007 contro il progetto dei DiCo del governo Prodi. Per il movimentismo cattolico mainstream, per la Cei e per la Chiesa si trattò due successi cattolici. Con il primo si vietava in Italia la fecondazione eterologa (ovvero al di fuori della coppia sposata) e la gestazione per altri, con il secondo si bloccava il progetto di legge che avrebbe dovuto riconoscere timidamente i diritti delle coppie omosessuali. Dal punto di vista dei movimenti cattolici contestatari che all’epoca stavano sobbollendo, si trattò in realtà di due fallimenti. Con il primo, mentre si vietava la fecondazione eterologa si autorizzava la fecondazione con tecniche e metodi artificiali non naturali, per di più con il benestare della Chiesa! Con il secondo, è vero che i DiCo furono insabbiati e il governo Prodi affossato, ma è anche vero che, secondo la lettura che ne hanno fatto i gruppi cattolici più radicali che ne furono protagonisti, da quell’evento non scaturì un movimento in grado di costituire una “diga” contro l’avanzata della democrazia dei nuovi diritti umani. Per questo li definisco come dei “paradossali successi”. Perché analizzati dal punto di vista delle frange cattoliche radicali, quegli eventi e i loro risvolti politici furono in realtà la prova che in Italia mancava un movimento cattolico forte, strutturato, capace di contrastare a livello politico le conseguenze della democrazia e la debolezza della Chiesa. Questa constatazione è uno dei nodi cruciali da cui emergeranno i movimenti neocattolici in Italia.
Il suo commento al celebre discorso di Giorgia Meloni in piazza San Giovanni mi è apparso particolarmente significativo. Ce ne vuol parlare?
Il celebre discorso di Giorgia Meloni: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana” è interessante perché permette di vedere esplicitata la logica dello scambio partiti-movimento. In quel discorso Meloni richiama gli elementi centrali del discorso anti-gender “genitore 1 e genitore 2”, “genere Lgbt”, ecc., dando così conferma di un’alleanza politica e di una disponibilità. Ovvero della disponibilità del suo partito, Fratelli d’Italia (particolarmente amato dal leader Massimo Gandolfini), a farsi strumento delle lotte neocattoliche. Lo scambio funziona secondo questa doppia dinamica: da un lato il movimento fornisce gli strumenti ideologici che permettono di elaborare un discorso politico di contestazione della democrazia dei diritti, di difesa della vita e della famiglia, dall’altro il partito si mette a disposizione come strumento per lavorare all’interno delle istituzioni, in Parlamento ma anche a livello locale, all’attuazione di politiche anti-gender, pro-life e pro-family. È un caso di studio interessante che permette di cogliere come avviene la strumentalizzazione politica della religione sia da parte dei partiti che da parte dei movimenti. La traiettoria del senatore Pillon, un altro protagonista dei movimenti neocattolici, con la Lega, ne è un altro esempio, che si è tradotto con la disponibilità di un seggio in parlamento.