Io, Pierre Seel, deportato omosessuale (Massari Editore [Storia e Memoria, 44], Bolsena 2020, pp. 175, €12), scritto nel 1994 in collaborazione con Jean Le Bitoux e tradotto dal francese in italiano a cura di Angelo Leghi, è un testo-testimonianza di una potenza incredibile sull’esperienza autobiografica dell’internamento in un campo di concentramento nazista in quanto omosessuale e di tutte le sue conseguenze lungo l’intera vita del protagonista: Pierre Seel.
È la storia di un giovanissimo Pierre, appena diciottenne, arrestato dalla Gestapo nel maggio del 1941 nella sua Alsazia occupata dai nazisti e annessa alla Germania hitleriana. Trasferito nel campo di Schirmeck subisce sei mesi di torture, fame, denutrizione, malattie, costante vicinanza alla morte, terrore, annichilimento fisico e psichico, atrocità senza fine. Al termine di questo terribile percorso di “rieducazione alla virilità” il ragazzo viene arruolato a forza nelle file dell’esercito tedesco. Non ha più una volontà, non sa più se ha un corpo, è un nulla appeso al filo della sopravvivenza e in queste condizioni deve affrontare quattro anni di schiavitù nell’esercito del Terzo Reich, occupandosi talvolta di scartoffie, ma infine inviato in prima linea contro i russi, salvandosi più volte dalla morte per pura casualità.
Poi il rientro nella sua città, Mulhouse, completamente annichilito, uno zombie, scoprendo di non poter raccontare nulla della sua vicenda, perché non è neppure contemplata la possibilità che un omosessuale possa essere ascoltato, prima ancora della possibilità di chiedere giustizia. Un omosessuale non può avere nessun diritto. Con un enorme sforzo riesce a raccontare la sua terribile storia solo alla madre ammalata, ma la donna dopo poco muore lasciando Pierre in una solitudine totale.
Seguono quasi 40 anni di silenzio, di sofferenza interiorizzata che non fa che gonfiarsi nascosta dentro di sé, rendendogli la vita quasi impossibile. Si sposa cercando di conquistarsi un posto nella “normalità”, ma quell’enorme non detto avvelena il rapporto con la moglie. Ha tre figli con i quali non riesce a impostare un rapporto davvero significativo, sentendosi sempre inadeguato, sbagliato, in imbarazzo. La sua vita lavorativa non può che essere disordinata e priva di solidità.
Lentamente cerca di aprirsi uno spazio di speranza, avvicinandosi a gruppi che trattano il tema della deportazione, ma il tema dell’omosessualità non viene mai affrontato. Nel 1981 per la prima volta ascolta in un incontro pubblico una discussione sull’argomento e ne rimane sconvolto. Nonostante lo shock ha la forza di prendere contatto con l’organizzatore della serata, un militante omosessuale di grande sensibilità, che più tardi lo aiuta a convincersi dell’importanza della testimonianza.
Inizia per Pierre il periodo più interessante: testimonia e racconta la sua vicenda in vari incontri pubblici e in tv, fino ad arrivare alla pubblicazione di questo testo, con l’aiuto del militante e fondatore della rivista Le Gai Pied, Jean Le Bitoux. Pierre, fortunatamente, passa i suoi ultimi anni con il compagno Eric Feliu e infine muore nel 2005 a Toulouse a causa di un cancro, all’età di 82 anni.
È paradossale che il testo sia stato pubblicato in Francia nel 1994 col titolo Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel, poi tradotto in decine di lingue e pubblicato in molti Paesi, ma arrivato nelle librerie italiane solo nel luglio 2020, 26 anni dopo.
Eppure, il suo caso era conosciuto in tutto il mondo e anche in Italia grazie al documentario Paragraph 175 (un film del 2000 diretto da Rob Epstein e Jeffrey Friedman, e narrato da Rupert Everett), nel quale Pierre è intervistato, testimoniando le atrocità subite. Da sottolineare l’importanza della memoria che la Francia ha voluto attribuire al caso di Perre, dedicandogli una strada a Toulouse nel 2008 e poi una strada a Parigi nel 2019. A Mulhouse la municipalità gli ha invece dedicato una targa-memoriale che ricorda tutti i deportati dai nazisti per motivi di omosessualità.
In Italia abbiamo solo un monumento dedicato alla memoria dei deportati omosessuali nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, e si trova nella città di Bologna, firmato da Corrado Levi (un grande triangolo di marmo rosa posizionato a terra nei giardini di Villa Cassarini presso Porta Saragozza, inaugurato il 25 Aprile 1990). E sempre di Corrado è la Panchina triangolare rosa, un’opera realizzata nel 1989, che si trova oggi nel cortile di Palazzo San Celso a Torino.