È uscita nelle librerie da qualche mese la silloge Quel sole e quel cielo, pubblicata dalla casa editrice La Città del Sole. Si tratta dell’ultimo lavoro poetico di Geraldina Colotti, poeta, giornalista de Il Manifesto e filosofa – ma anche pianista, calciatrice, judoka –, che ha trascorso molti anni in carcere per la militanza nelle Brigate Rosse ed è oggi una delle maggiori esperte di America Latina. Dirige, tra l’altro, l’edizione italiana di Le Monde diplomatique, il mensile di politica internazionale pubblicato mensilmente da Il Manifesto.
Anche in questa occasione quello celebrato da Colotti, da sempre vicina alle istanze della comunità Lgbt+, è un universo socialmente composito, umanamente denso, poeticamente densissimo: la sua lunga militanza e la sua riconosciuta statura intellettuale hanno le hanno infatti permesso di registrare e restituire al lettore voci e gesti di una società di esclusi, di marginali, di periferici in maniera scabra e immediata, al di là di qualsiasi tentazione retorica: Guardati dal re-torico/ e dalla re-torica/ oggi si piange/ in braille. Una società nella quale Colotti si muove con la dimestichezza di chi ha fatto della passione per l’equità e per l’uguaglianza l’imperativo categorico di un’intera esistenza.
Così, in quest’ultimo lavoro poetico c’è una porzione importante del suo immaginario e del suo mondo emotivo che si coglie fin dai primi versi della raccolta allorché, nel componimento Agliuto, la solitudine di chi ascolta gli esclusi si incontra e si fonde con la solitudine stessa dell’escluso: Ho chiesto agliuto/ sbagliando parola/ nessuno è venuto/ finisco da sola.
E poi c’è la consueta capacità di trasformare il particolare privato e politico (che spesso sono la stessa cosa in biografie “importanti” come quella dell’autrice) in esperienza universale, esperienza confitta come una scheggia – memento senza tempo – nella memoria di una rivendicazione che non è solo soggettiva e che si rinnova ben oltre le contingenze dell’hic et nunc: Dai campi al cortile/ In ogni spigolo/ che ci appartiene/ siamo lame/ siamo fuoco/ e dinamite/ io ci sono/ Non la fai franca/ dittatore maledetto/ Francisco Franco/ ti bruciamo il letto.
I versi di Geraldina Colotti restituiscono al lettore tutti i suoi slanci, l’inesauribile energia di chi non si arrende di fronte all’abuso e alla prevaricazione, l’onestà di chi riesce, con sofferto cinismo, a scartavetrare la superficie apparentemente intatta del tempo per rilevare il dolore del mondo: Si diventa cattivi/ giocando ai sentimenti/ nelle pause d’autunno/ seminando carne/ nei piatti dei gatti/ un pastone di chiodi/ ti aspetta/ sulla vite/ solo topi.
Si intravedono, in questa raccolta, elementi di continuità con La guardia è stanca, opera di alcuni anni fa in cui l’autrice, temprando i versi ad una simile altissima temperatura civile, esprimeva la propria netta e convinta condanna di qualsiasi forma di arroganza e di vittimismo borghese.
In Quel sole e quel cielo questa condanna viene restituita al lettore attraverso brevi ritratti di esclusi, di marginali, di eretici, di asistematici la cui solo esistenza in vita sfigura il conformismo perbenista e tracotante delle maggioranze: Mettere insieme il tutto/ Conflitti sconfitti confitti/ ai margini della storia/ come frammenti di lame/ fastidiando l’udito dei sordi.
E poi ci sono i versi dedicati a Chávez – Le parole di Chávez (da Jare a Miraflores) – e al Venezuela della Rivoluzione volivariana di cui la Colotti è profonda e diretta conoscitrice – basti qui menzionare il suo Talpe a Caracas edito da Jaca Book –: Ascoltino, ascoltino i potenti/ non han voluto udire il grido di fame e miseria/ del popolo/ ascoltino dunque la mia voce che è la voce del popolo/ se non vogliono assaggiare il ferro della disobbedienza popolare/ prima che qui sia pieno di cadaveri di sangue e di fuoco/ Terra venezuelana/ non vogliamo che ciò accada/ Crediamo nel futuro del paese.
Infine, in questa disincantata, ironica e, talora, malinconica carrellata di apparizioni, frame, voci che risalgono il corso dell’esperienza personale e di quella collettiva troviamo perfino il coronavirus, le drammatiche immagini che arrivano in diretta dalla memoria del lockdown: Sfilano le bare/ nei convogli militari/ Mancano al silenzio/ cori di angeli battezzati in fretta/ agli angoli di strade come ghetti/ di fastidiosi venditori di fazzoletti.