Un anno terribile il 2020. Una finestra aperta sul peggiore dei mondi possibile. Dovevamo uscirne migliori. È finita, invece, che, grattando sotto la superficie di un’iniziale solidarietà, sono state messe a nudo le nostre peggiori tendenze distruttive. Chi ha avuto un briciolo di potere per le mani spesso lo ha usato a discapito dei più deboli. Nulla di nuovo sul pianeta Terra. E, come ogni minoranza che si rispetti, abbiamo imparato che non c’è mai da abbassare la guardia. Che siamo comunque sotto attacco perenne. Basti ricordare le variegate manifestazioni del trumpismo e dei suoi peggior derivati. Il Brasile di Bolsonaro o tutta l’omofobia istituzionalizzata dell’est europeo di Visegrad, per citare alcuni esempi.
Paradossalmente, invece, le produzioni musicali di artisti Lgbtqi+ sono state davvero tante, notevoli. Ma soprattutto, pur espressione di una fiera rivendicazione del proprio io, della propria identità e della propria storia, non si sono mai rivolte a un pubblico di nicchia dell’universo arcobaleno ma all’intero panorama di appassionati di buona musica. E, visti i riconoscimenti di pubblico e critica, c’è da sperare che la maggior parte possa attribuire, senza batter ciglio, il giusto riconoscimento a ottime produzioni musicali. Produzioni ispirate da esperienze di accettazione o di rifiuto del proprio orientamento sessuale, ma anche delle proprie radici etniche, religiose, culturali. Oggi un canzone d’amore lo è a prescindere dal fatto che l’oggetto della stessa sia un amore etero od omo o di qualunque altro tipo. Love is love. È doveroso fare alcuni nomi che qualsiasi componente del variegato mondo Lgbtqi+ dovrebbe aver ascoltato in quel terribile 2020 ormai alle spalle da qualche mese.
Inizio col citare il meraviglioso Set my Heart on Fire Immediatly di Mike Hadreas, altrimenti detto Perfume Genius. Qualcuno lo ricorderà provocatore nel videoclip di Hood tra le braccia di un porno attore ungherese come un talentuoso enfant terrible, di quelli da tenere a bada quando ti fa visita l’anziana zia. Bene, ora il ragazzo terribile è diventato un uomo. Con al fianco il compagno Alan Wyffels sotto l’egida del produttore Blake Mills e coadiuvato da storici session men come i batteristi Jim Keltner e Matt Chamberlain e il bassista Pino Palladino, Perfume Genius ha incantato davvero, commosso e, per citare il titolo, incendiato cuori con un lavoro eterogeneo, dove le tematiche Lgbtqi+ sono sì presenti ma come componente di una personalità eclettica e formata. Insomma, il disco della maturità e della consapevolezza.
Il 2020 ci ha poi restituito uno smagliante Rufus Wainwright, che col suo Unfollow the Rules è tornato ai vertici compositivi di Want One e Want Two, dopo le divagazioni operistiche e shakespeariane non sempre centratissime, seppur intellettualmente stimolanti. Curioso come il produttore Mitchell Froom abbia chiamato parzialmente gli stessi session men presenti nel lavoro di Perfume Genius per ridare vigore e spessore al pop magnetico e barocco di Wainwright, ispirato al suo consolidato ménage familiare (quell’«essere sposato, papà, e un uomo che ha superato i 45 anni»). Tanto che il titolo riprende una frase che spesso cita la figlia ormai alle soglie dell’adolescenza. Un disco che ha quasi il sapore di un classico.
Durante l’anno passato abbiamo assistito a un’imponente nuova ondata di post punk che ha prodotto alcuni dei migliori dischi in assoluto del panorama musicale, come A Hero’s Death dei Fontaines D.C., solo per fare un esempio. Un ambito, il post punk, dove finora non aveva mai trovato una significativa rappresentanza la tematica Lgbtqi+. Irrompe sulla scena con poderosa freschezza Every Bad, secondo lavoro dei Porridge Radio capitanati dall’innocente sensualità di Dana Margolin. Fragore ed eleganza, carnalità e dolcezza. L’oggetto delle pene d’amore, snocciolate dalla voce della front woman, è ostentatamente una lei. Ma con una freschezza e naturalezza tale che ogni cuore capace di tre battiti in fila non può che lacrimare innanzi alle ruvide seppur adamantine interpretazioni. I richiami alla prima conturbante P J Harvey e al fascino interpretativo di Siouxie Sioux si fondono fino a forgiare una personalità interpretativa del tutto singolare tanto da divenire un’icona della scena alternativa Lgbtqi+ inglese. Imprescindibile.
Chi è rimasto in qualche modo ancorato all’idea che l’artista, che ha intrapreso il percorso della riformulazione della propria identità di genere, sia necessariamente associabile a un preconcetto strutturato su paillettes e lustrini, ebbene ascoltando la magnificenza di ORCORARA 2010 di Elysia Crampton sarà necessariamente costretto a rivedere le proprie convinzioni. L’artista amerindia ha fatto del dolce abbandono delle proprie radici personali, culturali, ideologiche il presupposto necessario per un’elevazione spirituale che va ben oltre il concetto di integrazione e accettazione. Attraverso i tappeti sonori, tessuti tra sottili maglie pianistiche, reading words, campionamenti di origini misteriose, Elysia si erge a madre compassionevole e redentrice di un pianeta malato dal punto di vista ecologico e ancor di più umano. Un delicato seppur possente incedere di note che, come un delicato manto magmatico, ci invita verso la possibile via dell’espiazione. Magico.
Sul lato opposto della stessa medaglia il lavoro di Arca che, partita dal suo Venezuela con Kick I, oggi disegna con la sua elettronica scenari futuribili, visti da oblò di metallici e immaginari club. Un’elettronica non di fruizione di massa; una sperimentazione fascinosa che mixa visioni e influenze le più disparate, che hanno rapito, stupito, irritato, ammaliato i più. Comprese le star osannate del panorama musicale come Rosalia e la dea Bjork (per la quale Arca ha lavorato come producer), qui presenti come guest. Ospite nel pezzo La Chiqui, l’amica Sophie dal parallelo percorso di sperimentazione, tragicamente e precocemente scomparsa ad Atene nell’ammirare la luna, dove la loro musica più e più volte ci ha sparato in iperbolici viaggi di andata e ritorno. Kick I è una continua accelerazione, un perenne cambio di direzione con improvvisi momenti di quiete a ristoro di anime inquiete. Se le note spiazzano a volte, le parole rivendicano con forza il proprio io come nell’iniziale Nonbinary: “Faccio quello che voglio quando voglio…Non me ne frega un cazzo di ciò che pensate, Non mi conoscete, Ma siete in debito con me, e cazzo non mi conoscerete mai”. Chapeau.
La Bolivia di Elysia Crampton, il Venezuela di Arca e la Colombia di Lido Pimienta. Il 2020 è stato il caleidoscopico racconto del contraddittorio rapporto del continente sudamericano con il suo vivace e poliedrico universo Lgbtqi+. Nell’affresco musicale raffigurante il suo paese l’artista queer colombiana raccoglie le fascinazione di ritmi e melodie ancestrali, che miscela con maestria a sapienti contaminazioni elettroniche in contrapposizione a meravigliose raffigurazioni in purezza. Eppure Miss Colombia è un doloroso addio alla propria terra. Un raccogliere quanto di bello essa ha saputo offrire per farne bagaglio e fuggire da un contesto incapace di capire l’artista: uno smarrimento nel fluttuante vuoto sociale, che Lido Pimienta denuncia fuggendo nella terra d’accoglienza canadese. Imperdibile.
Trasferendoci in un contesto più meramente di intrattenimento pop In a Dream di Troye Sivan è stato forse l’album più rappresentativo da citare. L’ex youtuber ha prodotto un lavoro patinato e raffinato per le ultime generazioni Lgbtqi+, strizzando l’occhio a un emergente pubblico del Sudest asiatico, che ha elevato In a Dream a colonna sonora della propria colorata e fiera emancipazione. Emancipazione, in cui destini possibili sono due: lo scontro con il conservatorismo regnante in quell’area di mondo, e, quindi, il conseguente riassorbimento delle nuove generazioni all’interno di contesti sociali tradizionali, oppure l’evoluzione di quella medesima area verso l’apertura al riconoscimento dei diritti civili dell’universo arcobaleno.
Se il 2019 aveva salutato l’ingresso a gamba tesa delle tematiche Lgbtqi+ nel mondo conservatore del country attraverso il bellissimo album Pony di Orville Peck, il 2020 ci ha regalato il toccante Eno Axis col quale H. C. McEntire, dalla sua fattoria-rifugio nel Nord Carolina, ha sparigliato il mondo del chiusissimo mondo del country rock americano. Prima di lei mai i banjo avevano suonato in maniera così “orgogliosa” tanto da indurre l’autrice a rimettere mano a un classicissimo come Houses of the Holy dei Led Zeppelin in una rilettura arcobaleno. Da far tremare le vene ai polsi per l’ardire ma con un risultato veramente degno di nota. Una musicista che fonde in sé la ruvidezza di Lucinda Williams e la purezza di Emmylou Harris, legittimandosi a talento puro in un ambito musicale quasi a esclusivo appannaggio di un Sud ultraconservatore.
La dolce sfrontatezza di H. C. McEntire sarebbe oggi probabilmente solo un miraggio, se personaggi come Amy Ray ed Emily Sailers, meglio conosciute come Indigo Girls, non avessero intrapreso una coraggiosa battaglia a favore dei diritti civili Lgbtqi+ durante la loro ultratrentennale carriera durante la quale non le hanno mandate certo a dire. Non è un caso se allora la stessa H. C. McEntire si è detta onorata di essere stata chiamata dalla “zia” Amy Ray ai cori nel suo singolo appena realizzato dal titolo Muscadine. Un ideale passaggio di testimone, ancorché la carriera delle Indigo Girls è tutt’altro dall’essere giunta al suo epilogo, avendo pubblicato nel 2020 Look Long: ennesimo tassello a suggello di una discografia, la loro, che oggi assurge, a pieno diritto, a classico del country rock moderno e, allo stesso tempo, a pietra miliare delle battaglie per il riconoscimento di pari diritti e pari opportunità. In anni, durante i quali due lesbiche dichiarate che imbracciavano le loro chitarre erano guardate nel migliore dei casi con sospetto, cantare la loro delusione verso un sud che le respingeva in Nashville o il rifiuto al doversi nascondere in Fugitive non deve essere stato facile. Siamo tutti in qualche modo loro debitori.
Il 2020 è stato l’anno anche di due alfieri “black”, simili e contrapposti. Sean Bowie (sempre che sia il suo nome reale), conosciuto sotto lo pseudonimo Yves Tumor, ha pubblicato il suo Heaven to a Tortured Mind, ulteriore capitolo d’una personale rielaborazione sospesa tra sperimentazione, rumore, melodia e sensualità degli stilemi della black music. L’ex protetto della queer rapper Mikki Blanco, che è cresciuto nel Tennessee con tutte le difficoltà che comporta per un ragazzino omosessuale nero ed è vissuto per un po’ di tempo a Torino, sfodera classe e sicurezza nei propri mezzi cesellando e fondendo tutte le molteplici influenze da cui dichiara di trarre ispirazione: dai rumori dei Thobbing Gristle alle schitarrate dei Nirvana fino ai classici Velvet Underground. Questa è la rete sulla cui trama rielabora il suo personale blues-funk del nuovo millennio. Affascinante.
Chiudo questa retrospettiva musicale sulle migliori uscite Lgbtqi+ del 2020 con Grae di Moses Sumney. Se Heaven to a Tortured Mind spiazza con i suoi repentini cambi di direzioni, Grae ha l’aria di essere uno di quei dischi che resta: è di una bellezza inossidabile anche col passare degli anni, un’opera generata da un autore in stato di grazia. Il blues e il jazz si abbracciano più che fondersi. Il falsetto avrebbe il potere di riportare in vita il miglior Prince di sempre se solo questi potesse ascoltarlo. Un fisico statuario, una bellezza sconvolgente mai usata mercificandola bensì solo al servizio della sua arte, come tutta la vita e la persona del buon Moses. Generato nei mesi precedenti la pandemia, Grae ne profetizza il principale effetto devastante: l’isolamento al quale siamo stati tutti costretti. E scava ancor più nel profondo, nei solchi di una solitudine ancor più profonda di quella generata dal Covid-19: quella dell’anima. Misuratevi con la meravigliosa Me in 20 Years, nel cui video altrettanto emozionante un “vecchio” Moses viene infine inghiottito da una voragine pulsante nel proprio letto. Un album sontuoso. L’ultimo di quelli citati, spaziando per generi musicali, età degli autori e provenienza geografica, a riprova che l’espressione artistica generata da una qualsivoglia minoranza e dal vissuto spesso permeato da dolore e rifiuto, non è una ricchezza solo per un pubblico specifico di riferimento. Bensì di tutti coloro cui la propria sensibilità concede di misurarsi con le esperienze altrui.