La gatta di famiglia è Armanda. Si scopre che è in realtà un gatto, ma nessuno le cambia nome. Resta Armanda, nome forse evocativo di Armanda Guiducci, nota scrittrice femminista degli anni Settanta.
Una gatta o gatto non binary e femminista. Una delizia letteraria.
La madre è una femminista, complessa, forte, disinibita, mai chioccia ma fine psicologa, quindi protettiva in una sua particolare declinazione che lascia spazio alla libertà dei figli, anche quando questa è una difficile libertà. Si chiama, nomen omen, Sarabanda. Il padre, con altro nome evocativo, è Speedy. Bel ragazzo, ballerino, romano, dedito a un suo svelto nomadismo relazionale. Provenienze sociali, morali ed emotive diverse. Si separeranno presto. I figli: due gemelli maschi, Ernesto ed Elia.
Ernesto nasce con una disabilità encefalitica grave, paralizzato a una mano, con disagi motori ed emotivi uniti a una lucida cognitività. Attorno alla sua esistenza ruota il racconto di famiglia de La casa delle madri, primo romanzo del traduttore Daniele Petruccioli, uscito nel 2020 per Terrarossa Edizioni e felicemente incluso quest’anno tra i dodici libri finalisti del Premio Strega.
La famiglia potrebbe facilmente tracimare verso un racconto problematico ma rassicurante, magari condito dall’atavico humor della borghesia romana, come nell’omonimo film di Ettore Scola (1987). Invece Petruccioli spariglia le aspettative medie del lettore postmoderno e ci porta su un itinerario che potrebbe allinearsi sulla deflagrazione di Saute ma ville di Chantal Akerman (1968), dove la casa è anzitutto luogo giovanile di tensione e distruzione.
Il cronotopo non lineare del romanzo può ricordare i tempi incrociati di una seduta analitica; l’io scrivente si sdoppia in uno sguardo di maîtrise, impermeato di una sua faticosa saggezza leopardiana e in uno sguardo interno ai due gemelli, figli che intessono la storia con la propria crescita nevrotica (ovviamente la nevrosi è anche formazione vitale, non solo distruttiva). Focus dell’affresco di Petruccioli sono l’adolescenza e la prima giovinezza, in particolare una scena di ménage a tre, raccontata in modo superbo, senza indulgere alla pornografia che di solito, anche in letteratura, livella il mondo delle emozioni sessuali e sensuali nel consumo compulsivo e nebuloso di immagini.
Come nella tragedia secondo Aristotele, siamo trascinati da un abisso di terrore e pietà, in uno spazio di tempo però non lineare, luogo familiare e nel contempo estraneo, Unheimliche freudiano e Angoscia, nel senso lacaniano di traccia degli affetti. A volte il narratore, consapevole che si tratti di destini e di hubrys piuttosto che dei drammi di semplici esistenze familiari medio-borghesi, fa penetrare una luce metafisica in un quadro che va vieppiù deformandosi.
In questo El Greco restiamo impaniati e senza orientamento, se non la certezza della distruzione di ogni certezza anche rappresentativa. Questo ci attrae e ci libera. E infine: «Guardano volti cambiare, farsi da giovani a vecchi a bambineschi, fuori dal tempo (ma non dallo spazio), almeno per come gli adulti sembrano misurarlo. Ascoltano i vivi e i morti, senza capire le parole di nessuno ma assimilando la voce di tutti. Fuori, il sole sale e scende, secondo uno schema che non ha niente di lineare».