Continua a infuriare il dibattito sul ddl Zan soprattutto dopo che la Commissione Giustizia del Senato ne ha deciso la sola discussione (12 voti favorevoli e nove contrari) , essendo state ritirate dalle proponenti i quattro disegni di legge precedentemente abbinati. Al centro del contendere, al di là della mai scemata azione ostruzionistica della Lega, ci sono le richieste di modifica del testo di legge avanzate in un appello da una parte (minoritaria, per il vero) del mondo femminista e del mondo Lgbt+.
Ancora una volta, purtroppo, assistiamo a un dibattito politico inquinato da fake news, presupposti falsi, approssimazioni ed errori concettuali. In particolare, sembra che il repertorio retorico di gran parte dei detrattori della legge o di parte di essa si risolva in due grandi fallacie logiche: l’argomento fantoccio e il pendio scivoloso.
L’argomento fantoccio (straw man argument) è la fallacia logica con cui si rappresenta in modo distorto o errato una tesi o una posizione altrui al fine di poterla attaccare con maggiore facilità. È questo l’espediente strategico utilizzato da coloro che senza sosta fabbricano falsità che nulla hanno a che fare con il disegno di legge in questione, sostenendo ad esempio che la legge Zan favorirebbe la gestazione per altri, incentiverebbe la prostituzione o imporrebbe ai bambini di vestirsi da femmina e alle bambine di vestirsi da maschio. In realtà, basterebbe leggere il testo di legge per rendersi conto dell’assenza di riferimenti (anche impliciti) ai temi citati e della totale infondatezza di queste affermazioni, aventi il solo fine di spaventare l’opinione pubblica.
DDL ZAN LIBERTICIDA?
Un’altra mistificazione strumentale è rappresentata dal mantra per il quale la legge Zan sarebbe liberticida e introdurrebbe un reato di opinione, prevedendo sanzioni per chi dovesse affermare che il matrimonio è solo quello tra uomo e donna, che un bambino deve crescere con una mamma e un papà o che le donne trans non sono donne. Niente di più falso: da un punto di vista tecnico-giuridico, gli esempi appena fatti rimarrebbero leciti in quanto riconducibili alla fattispecie della «propaganda di idee», punita dall’art. 604-bis c.p. solo in relazione alla razza, ma non estesa dalla legge Zan ai fattori del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità.
Ad essere punite sarebbero solo le condotte – ben perimetrate dalla giurisprudenza – di violenza, discriminazione e istigazione alla violenza/alla discriminazione, cosicché solo una discriminazione fattiva e concreta (ad esempio, l’espulsione di una coppia lesbica da un ristorante) o un’istigazione che presenti uno stretto nesso tra parola e atti violenti o discriminatori (un sindaco che inviti gli albergatori del suo comune a non accogliere coppie gay o persone transgender nelle proprie strutture ricettive) sarebbero passibili di sanzione.
A fugare ogni residuo dubbio sui rischi per la liberà di espressione, interviene poi la cosiddetta clausola “salva-idee”, secondo cui «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».
L’IDENTITÀ DI GENERE METTE A RISCHIO I DIRITTI DELLE DONNE?
La seconda fallacia logica che si presenta come schema ricorrente di vari attacchi al ddl Zan è costituita dall’argomento del pendio scivoloso (slippery slope argument), in base al quale il verificarsi un certo evento avrebbe come inevitabile conseguenza il verificarsi di un altro evento indesiderato, senza che però sia dimostrato un vero nesso di causalità tra il primo e il secondo evento. La comunità Lgbti+ conosce molto bene questa argomentazione, perché è la stessa utilizzata dagli oppositori dei diritti civili per affermare che dall’approvazione delle unioni civili o dal matrimonio egualitario sarebbe derivata come conseguenza la legalizzazione della zoofilia, della poligamia e della pedofilia.
A ben vedere, la fallacia del pendio scivoloso è alla base delle critiche rivolte contro l’inserimento dell’identità di genere tra i fattori di rischio contemplati dalla norma. Solitamente, chi sostiene questa posizione non si sofferma sulla dimensione dell’identità di genere, né sulla vulnerabilità delle persone trans, né sul loro bisogno di tutela, ma si concentra sulle conseguenze che un eventuale riconoscimento giuridico dell’identità di genere produrrebbe. La principale conseguenza, agitata come uno spettro dai fautori di questa tesi, sarebbe quella dell’affermazione in Italia del c.d. self-id (self-identification), in base al quale l’appartenenza al genere femminile potrebbe essere autocertificata da chiunque, per capriccio o per furbizia, a prescindere dalla conclusione di un percorso di transizione. Ciò produrrebbe a sua volta l’erosione degli spazi conquistati a fatica dalle donne, con la possibilità che qualche maschio, autodefinendosi donna, possa occupare le quote rosa nella composizione di organi collegiali; possa esercitare diritti riservati per legge alle donne; possa accedere a gare sportive o agli spazi femminili (bagni, spogliatoi, palestre, club, sezioni carcerarie), anche al fine perpetrare molestie e violenze sessuali con maggiore facilità.
Tuttavia, poiché il ddl Zan non è un manifesto politico, né un trattato di antropologia, né una legge in materia di attribuzione o rettificazione anagrafica di sesso, si fa fatica a comprendere – e, del resto, nessuno ce lo spiega – quale possa essere il nesso causale tra un’estensione della normativa sui crimini d’odio e le minacce per i diritti delle donne che vengono prospettate. La disciplina penalistica che incrimina la discriminazione basata sul sesso, sul genere o sull’identità di genere della vittima non va certo ad abrogare la L. 164/1982, non introduce il famigerato sistema di “self-identification”, né impedisce al legislatore di dettare normative settoriali extrapenali ad hoc che, proprio a partire dalla coesistenza reciproca e dalla non sovrapponibilità del sesso, del genere e dell’identità di genere, contemplino in determinati ambiti una diversificazione di trattamento basata su una “giustificazione obiettiva e ragionevole (secondo la giurisprudenza della Corte Edu).
Venendo invece al punto della questione, che lo slippery slope argument mira invece ad evitare, l’unico effetto certo e diretto che la rimozione dell’identità di genere dal testo di legge produrrebbe sarebbe quello di lasciare le persone trans sprovviste di tutela nel periodo antecedente al completamento dell’eventuale percorso di transizione, quello durante il quale si trovano maggiormente esposte al rischio di vittimizzazione. In questo modo, lo Stato finirebbe per creare una disparità di trattamento tra le vittime della violenza di genere, definita dalla Direttiva «vittime» (2012/29) come «la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere». Per questo, ogni proposta di stralcio dell’identità di genere non può che essere considerata irricevibile.
IDENTITÀ DI GENERE SCONOSCIUTA DALL’ORDINAMENTO GIURIDICO?
A conferma del fatto che le critiche contro l’identità di genere sono fuori fuoco e non pertinenti rispetto alla sedes materiae della legge Zan, e a smentita dell’affermazione secondo cui l’identità di genere sarebbe sconosciuta al diritto e all’ordinamento giuridico, è poi possibile richiamare diverse fonti (interne, straniere, internazionali e sovranazionali) e atti di soft law che contemplano un espresso riconoscimento dell’identità di genere.
Si pensi, ad esempio, alla Convenzione di Istanbul (2011), che pone un divieto discriminazione (tra l’altro) per sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere; ai Princìpi di Yogyakarta (2007), sull’applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere; alle Risoluzioni del Parlamento europeo contro l’omofobia del 18 gennaio 2006 e del 24 maggio 2012; alla Dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 18 dicembre 2008, sui diritti umani, l’orientamento sessuale e l’identità di genere; alla Relazione dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali del novembre 2010; alla Raccomandazione CM/Rec (2010) 5 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa; alla Risoluzione n. 1728 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, del 2010, sulla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere; alla Dichiarazione comune del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, del 22 marzo 2011, sull’eliminazione delle violenze basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere; alla Risoluzione del Parlamento europeo del 28 settembre 2011 sui diritti umani, l’orientamento sessuale e l’identità di genere nel quadro delle Nazioni Unite; alla Direttiva 2011/95 Ue, sull’attribuzione della qualifica di rifugiato (anche per motivi di identità di genere); alla già citata Direttiva 2012/29; alla Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014 sulla tabella di marcia dell’Ue contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere; alla Risoluzione n. 2048 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 2015. Sotto un profilo comparatistico, si pensi anche solo alla celebre legge statunitense contro i crimini d’odio, il Matthew Shepard and James Byrd Jr. Hate Crimes Prevention Act del 22 ottobre 2009, che ha ad oggetto «a crime that is motivated by prejudice based on the actual or perceived race, color, religion, national origin, gender, sexual orientation, gender identity, or disability of the victim».
Con riferimento all’ordinamento interno, si possono menzionare gli artt. 1 e 14 dell’Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), che riconoscono nell’identità di genere un fattore di vulnerabilità della persona detenuta; l’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998), che vieta «il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di identità di genere»; le diverse leggi regionali recanti «norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere» (Toscana, L.R. 63/2004; Liguria, L.R. 52/2009; Marche, L.R. 8/2010; Piemonte, L.R. 5/2016; Emilia Romagna, L.R. 15/2019).
Infine, si pensi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. 15138/2015) e della Corte costituzionale (Corte cost. n. 221/2015 e 180/2017), che espressamente definiscono l’identità di genere un diritto fondamentale della persona umana.
Il ddl Zan si presenta dunque come un testo equilibrato, frutto di un non facile lavoro di sintesi parlamentare, non introduce reati d’opinione e prevede un catalogo antidiscriminatorio in linea con le legislazioni straniere e con il quadro normativo internazionale sovranazionale. Si tratta di un intervento che risponde a un bisogno di tutela contro i crimini d’odio ed è innanzitutto in questa prospettiva che dovrebbe essere valutato dalle forze politiche. Purtroppo, vi sono critiche che, prescindendo da una necessaria analisi giuridica, rischiano di trasformare questo disegno di legge in un campo di battaglia ideologico, simbolico e identitario, in cui il sesso, il genere e l’identità di genere sono visti non come dimensioni dell’identità personale da proteggere e in grado di coesistere, ma come fattori in contrapposizione reciproca. Tali critiche non solo non colgono nel segno, ma rischiano di distogliere il dibattito pubblico dal merito delle questioni e dalla reale portata normativa del disegno di legge.
Per questo, non resta che auspicare che le forze politiche, senza ulteriori indugi, approvino il ddl Zan nell’identico testo in cui è stato approvato alla Camera, dotando finalmente l’Italia di una legge attesa da quasi trent’anni.