In questi giorni in cui sul disegno di legge contro l’omofobia, la transfobia e altre caratteristiche personali, attualmente all’esame del Senato (A.S. 2005), si legge e si sente dire di tutto di più. Mi ha colpito l’editoriale del prof. Michele Ainis, costituzionalista, il cui titolo è Ddl Zan, il coltello del pedagogista, pubblicato su La Repubblica il 12 maggio scorso. Franco Grillini aveva pensato di chiedere diritto di replica al quotidiano diretto da Molinari. Ma sarebbe meglio chiamarlo “diritto di rettifica”, considerata la quantità di errori e imprecisioni che contiene il testo dell’articolo. Poiché la nostra richiesta di replica a La Repubblica non è stata presa in considerazione, mi sembra opportuno lasciare traccia del forte dissenso rispetto a quelle inaccettabili quattromila battute.
Sia inteso: il prof. Ainis, da par suo, esprime le opinioni che gli paiono, ma da tecnico del diritto che da anni si occupa di fare informazione, non può farsi soldato di quella “guerra” di cui questa legge sarebbe, nelle sue parole, l’ultima trincea. Nell’articolo lamenta, infatti, un dibattito scadente e l’assenza di un ragionamento laico sull’iniziativa legislativa. Ma di certo il suo articolo mi pare il contrario di un contributo a migliorare lo stato dell’informazione e del confronto. È bene premettere che l’idea da tempo sostenuta da Ainis è che la legge italiana tuteli tutti i diritti delle persone gay, lesbiche e trans. Matrimonio a parte, le persone omosessuali avrebbero gli stessi diritti delle persone eterosessuali e non ci sarebbero ingiustizie da rimuovere.
Non riesco a trovare una spiegazione “in diritto” a questa affermazione così netta. La mia impressione contraria è che – tenuto conto che l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono caratteristiche personali che a livello nazionale e internazionale sono considerate fonti di possibile discriminazione e violenza in grado statisticamente maggiore di altre caratteristiche – il legislatore italiano non sia intervenuto per “rimuovere gli ostacoli” che si frappongono all’uguaglianza delle persone omosessuali e trans in ogni ambito. Anzi, gli interventi legislativi che li riguardano sono talmente pochi da potersi elencare in tre righi: la legge del 1982 sulla rettificazione di sesso, ormai antiquata e puntellata da Corte costituzionale e Cassazione; le unioni civili del 2016, approvate dopo la messa in mora del Parlamento da parte della Corte costituzionale e la condanna dell’Italia in sede internazionale; alcune poche disposizioni degli ultimi vent’anni che sono state introdotte come obbligo di recepimento del diritto dell’Unione europea nelle materie di competenza di quest’ultima, tra cui la legge che vieta la discriminazione nei luoghi di lavoro. Se non ci fosse stata la spinta euro-unitaria, è probabile che mai avremmo avuto queste ultime disposizioni e neppure una discussione su quei temi, considerata la scarsa attenzione che il legislatore italiano riserva ai diritti fondamentali e la convinzione liberale, quale mi pare quella di Michele Ainis, che basti l’uguaglianza formale general-generica recata da quelle che lui chiama “le clausole generali”.
Non vorrei stare qui a ricordare che la Costituzione garantisce a tutte/i l’uguaglianza sostanziale, sulla quale con riferimento alle persone Lgbti+ non ci siamo proprio, e che le clausole generali, se con quest’espressione ci riferiamo ai principi, sono quelle che in questi anni ci hanno aiutato a fatica a ‘sopravvivere’ mediante il ricorso ai tribunali. Che notoriamente risolvono il caso concreto, costruiscono un diritto vivente, ma sono altro rispetto al ruolo della legge e della sua applicazione generalizzata a tutti i cittadini e le cittadine, senza la quale i diritti diventano la possibilità e la garanzia solo di chi ha la convinzione, la determinazione, la forza, il denaro, la resistenza di avviare procedimenti giudiziari. I principi sono il tesoro da spendere, ovvero la voce a cui dare parola attraverso le leggi, che mancano, quando devono essere applicati alle persone Lgbti+.
Fermiamoci a considerare, cosa che Ainis non fa, la discriminazione e la violenza verso le persone lesbiche, gay e trans. Esiste un’emergenza? Qual è il loro impatto sociale e la gravità? L’Italia da qualche anno comunica all’Osce i dati relativi ai reati d’odio motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. Si tratta di dati ufficiali, ma che sono raccolti senza alcuna sistematicità e senza valore statistico, perché non c’è una legge che dica a una qualunque istituzione dello Stato di monitorare e raccogliere questi dati. Così l’Oscad li raccoglie attingendo alle notizie di stampa, a canali informali e alle segnalazioni che gli giungono. In questo modo nel 2019 all’Osce sono stati riportati 107 reati con questo movente. C’è chi sbandiera questo numero perché lo ritiene un’inezia, un numero piccolo e risibile, invece equivale a un reato ogni tre giorni che colpisce una minoranza stimata intorno al 5% della popolazione. Se facessimo una proporzione con la popolazione generale sarebbe come se parlassimo di una media di cinque o sei reati al giorni.
Ma c’è un però enorme da tenere in considerazione: questi numeri rappresentano solo la punta dell’iceberg dal momento che la maggior parte dei reati con movente omofobico e transfobico non sono registrati e spesso neanche denunciati. La mancata denuncia (under-reporting) e la mancata registrazione (under-recording) dei reati contro le persone gay, lesbiche, bisessuali e trans sono fenomeni ben noti a livello internazionale, che la mancanza di strumenti normativi adeguati, come il ddl Zan, alimenta. Chi è aggredito per il suo orientamento sessuale o per l’identità di genere denuncia poco perché avverte l’assenza di un sistema legale che lo/a garantisca e lo/a assista; quando invece una denuncia viene fatta, accade che il movente legato all’orientamento sessuale o all’identità di genere non sono raccolti dagli operatori della giustizia e non sono registrate in nessuna banca dati a causa dell’assenza di una legge che obblighi a farlo. Così la discriminazione e la violenza nei confronti delle persone Lgbti+ si sottostima, si oblitera, viene ridotta al fatto di cronaca locale che periodicamente sale agli onori della cronaca nazionale: il tempo di indignarsi e la si chiude lì. Un tempo il fascismo sosteneva che l’omosessualità non esiste, oggi gli araldi del paese democratico sostengono l’irrilevanza della discriminazione e della violenza contro le persone omosessuale. Ainis sostiene che il codice penale contempla già una soluzione prevedendo il reato di istigazione a delinquere e le aggravanti generiche.
Ma è così? Fermandoci a una questione di logica dovremmo rispondere che non basta, perché altrimenti quelle fattispecie di reato avrebbero adeguatamente contrastato e represso da sempre la situazione emergenziale prima descritta, che invece è davanti a noi in tutta la sua gravità. Usando sempre la logica, l’insufficienza di quelle disposizioni penali è stata già stabilita dal legislatore quando ha deciso di introdurre la legge Mancino-Reale (ora anche articoli 604-bis e ter del codice penale) per i casi in cui la vittima è colpita perché professa una religione, appartiene a una minoranza linguistica o ha una diversa nazionalità o origine etnica. Sull’importanza della legge Mancino-Reale, il prof. Ainis non sembra avere un’opinione negativa se, scorrendo la rassegna stampa degli articoli che ha scritto negli anni, si ritrovano prese di posizione per una sua attenta applicazione, per esempio, per contrastare il razzismo. Perché, allora, la stessa legge Mancino-Reale, d’un tratto finirebbe nel novero delle “regole minute e puntute come spilli”, nel momento in cui si vorrebbe estenderla per proteggere le persone lesbiche, gay, bisessuali e trans, che subiscono discriminazioni e violenze assimilate internazionalmente a quelle religiose, etniche e razziali?
Ainis commette anche l’errore di sostenere che con la nuova legge si continuerebbe «a gonfiare a dismisura il diritto penale», mentre si tratta – come detto – dell’estensione a più soggettività di una legge penale operante da 46 anni. Perché, allora, la farraginosità di un sistema che conta più di 35 mila reati esplode in tutta la sua emergenza nel momento in cui si deve far fronte a quella che è una emergenza sociale che il diritto penale non può non affrontare in maniera adeguata? Ainis per sostenere la sua idea che le norme penali esistenti già tutelerebbero a sufficienza le persone Lgbti+ cita il caso della denuncia contro un consigliere regionale ligure che avrebbe fatto quelle affermazioni irripetibili che chi voglia può cercarsi in rete. Ammetto di non conoscere gli atti del procedimento, ma se devo fidarmi di quanto pubblicato dalla stampa, l’esempio scelto sarebbe proprio sbagliato perché chi ha denunciato ha chiesto al giudice di condannare l’autore sulla base proprio della legge Mancino-Reale – evidentemente assimilando l’odio omofobico a quello razziale – a riprova dell’assenza nel codice penale di una tutela penale per questi reati. Anche altre volte si è provato a far applicare quella legge, ma senza successo, perché l’applicazione analogica nel diritto penale non è possibile e l’assimilazione dell’omofobia al razzismo avviene su un piano politico, ma non ancora giuridico.
Su un altro piano, bisogna aggiungere che il ddl Zan non riguarda i ‘discorsi’ di odio, come scrive Ainis, ma i ‘reati’ di odio, della cui gravità e differenza dai primi Ainis è consapevole, ricordando spesso nei suoi articoli la sentenza nella quale un giudice (Holmes) affermava che la libertà di espressione non tutela chi gridi al fuoco in un teatro affollato, scatenando il panico, così come non può proteggere chi crea un rischio concreto istigando a discriminare o a commettere violenza. Infatti, è sempre bene ribadirlo, la legge Mancino-Reale condanna i discorsi di odio solo con riferimento ai fattori etnico-razziali, non negli altri casi, tra cui verrebbero aggiunti l’orientamento sessuale, l’identità di genere e le altre caratteristiche introdotte dal ddl. In questi altri casi, dice la Cassazione, sono puniti veri e propri fatti di odio, che in alcuni casi potranno assumere la forma dell’istigazione a cui stia per seguire la commissione del fatto reato.
Oltre il resto, Ainis accusa la legge anche di errore pedagogico o di avere una funzione pedagogica. Qualunque cosa voglia dire con quest’affermazione, la conseguenza sarebbe che potrebbe nuocere all’autostima delle persone che la legge vorrebbe proteggere, perché ci sarebbe il rischio di alimentare il loro senso d’inferiorità sociale. Chiedo per un momento di riflettere sul fatto che la stessa legge penale da almeno 30 anni protegge, per esempio, i cattolici e le minoranze linguistiche; da più tempo le minoranze etniche: chissà se a qualcuno di loro abbiano mai ritenuto, chiesto o detto che questa tutela potrebbe danneggiarli nell’autostima. Non so se la liberazione il 25 aprile, i lavoratori il primo maggio o una delle tante altre ricorrenze nel corso dell’anno possano nuocere alle persone riguardate da quelle giornate. Perché ciò dovrebbe accadere con la giornata del 17 maggio in cui internazionalmente si ricorda l’impegno richiesto a tutti/e contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia? Sembrerebbe emergere che per Ainis l’esistenza di stereotipi e pregiudizi nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e trans non siano un realtà.
Per carità, non consideriamoli dei dati di fatto, non diamoli per scontati, ma decine e decine di studi, dal Consiglio Onu per i diritti umani all’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea, alle molteplici ricerche svolte in Italia provano la loro (r)esistenza e gravità. Come si può sostenere che la legge potrebbe danneggiare le persone omosessuali e trans prevedendo interventi nell’ambito dell’educazione, dell’istruzione, del lavoro, della sicurezza, della comunicazione e dei media per contrastare e prevenire stereotipi e pregiudizi? In particolare, la scuola è la prima fucina della cittadinanza e della democrazia; è il luogo per eccellenza in cui gli stereotipi e i pregiudizi vanno decostruiti, soprattutto perché le ricerche condotte nelle scuole italiane posizionano il bullismo omotransfobico ai vertici delle classifiche degli atti di bullismo. Quindi la finalità pedagogica indicata da Ainis, che mi ostino a non comprendere, qualunque cosa voglia significare, chi o cosa potrebbe nuocere?
E a proposito del Regno Unito, non è vero che ha cancellato l’“identità di genere” dalle sue leggi, né ha mai pensato di farlo perché questa è la dizione standard usata a livello internazionale e in molte legislazioni, inclusa quella italiana. Però, andare contro l’espressione “identità di genere” associandola a altre questioni che con il ddl Zan non hanno nulla a che fare aiuta a generare confusione e a sostenere polemiche inesistenti: come l’ autocertificazione del proprio genere, che Ainis scrive precisamente “autocertificazione del proprio genere sessuale” creando tra l’altro un’espressione che non vuol dire letteralmente niente, perché nell’identità sessuale il sesso e l’identità di genere indicano due concetti diversi; così come il pericolo paventato di “cancellazione del femminile”, che non si sa da dove arrivi.
Nell’articolo di Ainis credo che sia mancata del tutto la “cura”, una qualunque forma di attenzione verso il tema trattato e l’approfondimento dei vari aspetti del disegno di legge. Certo, il ddl Zan non è la legge perfetta o la migliore possibile perché per le persone Lgbti+ si dovrebbe fare ancora di più. Però a me pare che si occupi della protezione della sicurezza e della salute delle persone lesbiche, gay, bisessuali e trans attraverso l’intervento penale e cominci a porre attenzione alla prevenzione e alla crescita sociale attraverso disposizioni culturali in senso ampio. Tutto diverso rispetto a «una tecnica normativa che rifugge dalle clausole generali, confezionando regole minute e puntute come spilli» che mi pare un’affermazione campata in aria, un pensiero scritto male, come l’intero articolo.