Paola Lazzarini, sociologa e giornalista con lunga esperienza nel terzo settore e nella formazione, ha all’attivo diverse pubblicazioni sociologiche, oltre a due libri di spiritualità del quotidiano (Single di Dio del 2010 e Il paradiso in grembo del 2015). Da diversi anni si occupa attivamente della diseguaglianza tra donne e uomini nella Chiesa cattolica. È presidente dell’associazione Donne per la Chiesa, consulente di Voices of Faith e co-chair dell’executive board del Catholic Women’s Council. È uscito recentemente il suo Non Tacciano le donne in assemblea. Agire da protagoniste nella Chiesa (Effatà, Cantalupa 2021, pp. 80), alla cui luce le abbiamo posto alcune domande sul suo percorso di fede e femminismo.
Nel tuo libro c’è un forte e vitale intreccio tra biografia e posizionamento religioso e femminista, tra trauma e resistenza. Allo stesso modo la fede cattolica sembra incardinata profondamente alla tua esistenza, attraverso incontri, formazione personale e scelte di vita. Ci parli di te?
Sono cresciuta in una famiglia cattolica, post conciliare – diciamo – di sinistra. I miei genitori si sono formati nella Fuci di Bologna, quando era vescovo il cardinale Giacomo Lercaro, e il loro matrimonio è stato celebrato da mons. Bettazzi: quindi la fede e l’appartenenza alla Chiesa sono stati da sempre i miei pilastri. Crescendo ho conosciuto i gesuiti e con loro ho scoperto la spiritualità che ancora oggi è fondamento della mia preghiera e del mio modo di affrontare le decisioni: mi sono sempre sentita felicemente figlia della Chiesa, finché – arrivando alla fine dell’università – nel periodo in cui si cominciano a prendere le decisioni importanti per il futuro, mi sono scoperta “figlia di un dio minore” in quanto donna e questa esperienza è diventata ancora più evidente quando ho deciso di “farmi suora”. Dopo cinque anni di vita religiosa, pieni di incontri molto belli, ma anche di difficoltà a stare dentro un’istituzione che tentava di spersonalizzarmi, in una Chiesa che considera la vocazione delle donne sostanzialmente al servizio di quella degli uomini, ho lasciato. Ho poi lavorato in una grande associazione cattolica, dove ho conosciuto quello che è diventato mio marito: sia in quella realtà, in cui in 77 anni di storia ancora non si è vista una presidente donna, sia nella preparazione al matrimonio in parrocchia l’esperienza di minorità delle donne nella Chiesa è diventata soverchiante. Avendo poi avuto una bambina, tutte le questioni di giustizia di genere sono diventate prioritarie per me: quello che potevo sopportare su di me, non potevo sopportare che accadesse a lei. Mi sono così impegnata affinché nella Chiesa maturi finalmente una giustizia di genere: è stato un passaggio quasi naturale. Ho poi scoperto tante donne, in Italia, con esperienze analoghe e ho sentito necessario vivere questo impegno non da sola, ma con la costituzione di un gruppo. Da qui è nata l’associazione Donne per la Chiesa, che ora collabora con gruppi di femministe cattoliche di tutto il mondo.
Quali sono i tuoi riferimenti femministi e in generale i tuoi modelli femminili (sempre che si possa parlare di “modelli”)?
Non sono una di quelle che ha studiato femminismo all’università. Sono consapevole delle mie lacune e anche di appartenere a una generazione tra le meno impegnate su questo fronte. Ma, come dice Roxanne Gay “preferisco essere una cattiva femminista che non esserlo affatto”. Ho dovuto guadagnarmi la consapevolezza grammo a grammo, trovare le mie maestre, passando per la fase del “ormai non c’è più bisogno del femminismo” per arrivare a capire quanto ne avevo bisogno personalmente e quanto ne abbiamo bisogno come Paese. Avevo avuto la fortuna di una professoressa di filosofia al liceo (dai gesuiti) che mi faceva leggere i libri di Diotima e l’Eunuco femmina di Germaine Greer. Ma poi sono dovuta arrivare a quarant’anni per trovare Mary Daly e – con lei – le parole per parlare della mia esperienza di femminista credente. Per quanto riguarda i modelli femminili, ammetto di sfuggirli più che posso. Sono però appassionata alla politica statunitense e tra i miei “miti” ci sono Stacey Abrams, Gabby Giffords, Alexandria Ocasio Cortèz. Tutte accomunate da una grande capacità di stare in contatto con le loro comunità, tutte donne molto assertive e al tempo stesso empatiche. Gabby Giffords ha anche una storia drammatica alle spalle e la sua forza nell’andare avanti è una grande ispirazione.
La tua posizione sul sacerdozio delle donne è pubblicamente favorevole e ti impegni per la sua realizzazione. Questa tua scelta si intesse con la consapevolezza del ruolo subordinato e spesso umiliante delle donne nella Chiesa cattolica. Secondo te, nel 2021, una comunità che non riesca a declinare in modo non pavido l’uguaglianza tra i sessi è reazionaria?
Il termine reazionaria mi sembra riduttivo. Io la considero una comunità innanzitutto incoerente con il messaggio di liberazione del Vangelo, sul quale poggia, e secondariamente incapace di incarnazione nell’oggi. Vedo una pesante istituzione totalmente interessata a preservarsi a qualsiasi costo e impreparata a leggere le dinamiche carsiche che la attraversano. Mi spiego. A mio parere il processo di secolarizzazione è irreversibile: l’ordinazione delle donne non potrebbe fermarlo, tanto meno l’abolizione dell’obbligo del celibato per i preti. Ma un passo nella direzione della giustizia restituirebbe almeno un poco di forza al messaggio che, come Chiesa, siamo ancora chiamati a trasmettere. Per questo guardo con tanta speranza al Cammino sinodale tedesco. Non credo che la Chiesa tedesca avrà la forza di trascinare con sé il resto del mondo. Ma, almeno, vediamo un esempio concreto di ciò che potrebbe essere, se si scegliesse di liberarsi finalmente dalle troppe incrostazioni.
Sull’aborto, come sulla maternità, sei favorevole a mettere al centro il corpo, l’autodeterminazione e la coscienza di sé delle donne. Ci parli del tuo pensiero e del tuo modo di vivere libertà di realizzarsi come persona, legame matrimoniale e maternità?
Sono una donna che ha vissuto la maternità come l’evento trasformante della vita: ho lasciato il lavoro per tre anni per poter stare con mia figlia, ho praticato l’allattamento prolungato e l’accudimento ad alto contatto. Insomma, sono esattamente il tipo identificabile come “prima madre che donna”. Ma, proprio perché ho potuto scegliere di vivere in questo modo la maternità, sono assolutamente convinta che sia necessario che tutti (la Chiesa in primis) facciano un passo indietro, affinché le donne si liberino da qualunque forma di doverismo legato a questo ambito della vita. Pensare di imporre un parto (impedendo l’aborto) o di rappresentare come desiderabile un unico modello di accudimento materno fatto di abnegazione e oblatività sono violenze. Chiamiamole col loro nome. Tra la sacralità del feto (cattolica) e la sacralità della diade (femminista) si rischia di dimenticare la sacralità della vita delle donne. Invece la prima fedeltà è verso sé stessi. In questo la mia formazione, lo studio e la preghiera sui testi del Vangelo, con la parabola dei talenti che dobbiamo far fruttare, mi sostiene: abbiamo l’obbligo di esprimere al meglio la nostra umanità o avremo mancato l’obiettivo a cui Dio ci chiama! Anche il matrimonio per me ha senso solo in questi termini: o è il luogo di un’alleanza che permetta a entrambi i coniugi di fiorire come individui, oppure è necessariamente un luogo di oppressione. E, purtroppo, di donne cattoliche che oggi si rifanno a un immaginario anni ’50 di sottomissione, ce ne sono tante. E la Chiesa gerarchica le porta in palmo di mano, ospitandone i raduni nelle basiliche romane. Con il mio gruppo, invece, quando ancora ci si poteva incontrare di persona, avemmo un sacco di difficoltà a trovare una stanzetta per riunirci, nelle migliaia e migliaia di strutture religiose della capitale.
Hai recentemente organizzato un sensibilissimo e stimolante webinar di presentazione del libro Love Tenderly: Sacred Stories of Lesbian and Queer Religious, raccolta di testimonianze e riflessioni di vite di consacrate sia lesbiche che trans. Che spazio ha la “devianza” dalle norme nel tuo percorso di ricerca?
Non vorrei sembrare superficiale, ma non ho mai considerato e opposto percorsi “normali” e “devianti”. Mi sono sempre interessate le persone e il loro modo di incontrarsi e rendersi reciprocamente più sopportabile questa vita. Il mio stesso percorso non è stato tanto normale e, quindi, m’incanta guardare il modo in cui il cuore trova strade, magari inedite, di esprimersi. Avendo fatto per tanti anni l’educatrice in parrocchia, ho accompagnato molti adolescenti Lgbt+ nel periodo della scoperta di sé, anzi più che accompagnato (perché non avevo nessuna competenza per farlo) semplicemente ero lì accanto. E ho potuto vedere con i miei occhi quanta meravigliosa potenza si liberi nel momento in cui finalmente si accoglie e si esprime ciò che si è. Per me quelle sono esperienze di resurrezione: anche quando ci sono in mezzo rabbia, rifiuto, risentimento, vedi davvero che la vita è più forte della morte.
Domanda di rito (laico): un tuo posizionamento sull’identità di genere tra ddl Zan e ascolto di percorsi di vita
Come dicevo, a me interessano le persone e i loro percorsi: chi, se non la persona stessa, può ardire a definire la propria identità profonda? Ecco, io sento che davanti al santuario dell’altro dovremmo fermarci e lasciare che sia lei, lui a rivelarsi per ciò che sa e comprende di sé… Che, magari, non è nemmeno ancora definibile e ha bisogno di uno spazio sicuro per esprimersi o che magari non si potrà mai definire secondo le categorie note. Da cittadina e da madre m’interessa poter vivere in un paese che tutela la soggettività e aiuta i talenti a maturare, un paese nel quale si riconosce alle persone di essere chi sono. In questo mi hanno aiutato alcuni dei miei migliori amici, che sono omosessuali. Uno in particolare, che è più di un fratello per me, è una presenza costante nella vita mia e della mia famiglia: lui non solo mi ha insegnato a guardare le cose con uno sguardo più ampio, ma il volergli bene mi ha resa intransigente rispetto a quanti ritengono che non ci sia bisogno di tutele specifiche. Sono necessarie, urgenti, anzi erano urgenti decenni fa e ora siamo abbondantemente fuori tempo.