A partire dalla mezzanotte del 1° luglio la Turchia è ufficialmente fuori dalla Convenzione d’Istanbul, il trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. L’annuncio ufficiale era stato dato il 19 marzo con la firma del decreto, entrato ieri in vigore, da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Una mossa ritenuta saggia e necessaria dal partito di governo Akp, per il quale la Convenzione d’Istanbul danneggerebbe l’unità familiare, incoraggerebbe il divorzio, normalizzerebbe l’omosessualità, favorirebbe l’accettazione delle persone Lgbt+, in particolare quelle trans, dal momento che il comma 3 dell’articolo 4 vieta espressamente la discriminazione fondata (fra gli altri motivi) sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.
Per questo motivo migliaia di donne sono scese ieri in piazza a Istanbul: oltre alle associazioni per i loro diritti hanno preso parte alla manifestazione di protesta organizzazioni Lgbt+, numerose ong e partiti di opposizione. Costante la sorveglianza della polizia in assetto antisommossa soprattutto tra la centralissima piazza Taksim e via İstiklal, dove la marcia si è snodata. Non sono mancati momenti di tensione. Ma fortunatamente non ci sono stati scontri.
Primo dei 34 Paesi del Consiglio d’Europa ad aver ratificato il 12 marzo 2012 la Convenzione d’Istanbul (così chiamata perché aperta alla firma, il 7 aprile 2011, nella città del Bosforo), la Turchia è stato anche il primo a recederne. E, questo, nonostante l’aumento esponenziale di violenze domestiche e femminicidi nel Paese eurasiatico. Solo nel 2020, come documentato dalla piattaforma Kadın Cinayetlerini Durduracağız (We will stop the femicide), sono state infatte uccise ben 300 donne in Turchia.