Si terrà domani pomeriggio a Copenaghen la parata del World Pride, momento culmine di una serie di eventi, che, iniziati il 12 agosto, si concluderanno domenica 22. Slogan dell’edizione #YouAreIncluded, che ha offerto l’occasione alla commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, di sviluppare una lunga riflessione sulla manipolazione politica dell’omofobia e della transfobia nei 47 Stati membri.
In preparazione a un evento di tale portata abbiamo raggiunto Yuri Guaiana, attivista lombardo di fama internazionale, segretario di Lgbti Liberals of Europe, componente del board di Ilga World, membro dell’assemblea di +Europa e segretario di Certi Diritti, per fare con lui il punto della situazione.
Yuri, il 16 agosto la commissaria Mijatović ha rilasciato un lungo comunicato sulla manipolazione politica dell’omofobia e della transfobia. Qual è la situazione dei diritti Lgbti in Europa?
Come ha giustamente scritto Dunja Mijatović, dopo un’ampia consultazione con la società civile, «in sempre più Paesi europei, politici e funzionari pubblici prendono spudoratamente di mira le persone Lgbti per un guadagno politico, alimentando odio e pregiudizi». Siamo ormai arrivati a un livello tale per cui i grandi successi degli ultimi 20 anni rischiano di essere messi in discussione. Questi successi sono strepitosi e dimostrano che il movimento Lgbti, nato dai moti di Stonewall e ancorato alla cultura dei diritti umani individuali e universali, ha rappresentato il movimento sociale di maggior successo nella storia recente: la criminalizzazione dell’omosessualità è da tempo completamente eradicata dal nostro continente, 30 Stati membri del Consiglio d’Europa (sui 47 complessivi) offrono protezione alle relazioni stabili dello stesso sesso e il diritto al riconoscimento legale del genere è stato riconosciuto in vari Paesi. Noi tutti abbiamo la responsabilità di difendere i successi acquisiti sinora e di colmare le enormi lacune che, purtroppo, permangono nel riconoscimento dei diritti umani delle persone Lgbti.
Polonia e Ungheria sono i casi più eclatanti della progressiva erosione dei diritti Lgbti a opera dei rispettivi governi e Parlamenti. Si può leggere nella grande attenzione e apprensione dei vertici Ue e Consiglio d’Europa la preoccupazione per un eventuale effetto domino su altri Paesi?
L’attenzione dei vertici Ue e Consiglio d’Europa è prima di tutto un ottimo segnale che non viene per caso. È anch’esso frutto del lavoro decennale di tanti di noi per affermare e consolidare la nozione elementare, ma solo recentemente diventata pacifica, che i diritti Lgbti sono diritti umani. È la prima volta che l’Europa risponde in maniera così forte e determinata agli attacchi contro le persone Lgbti. Ma occorre garantire che la pressione contro Polonia e Ungheria continui a rimanere alta poiché in quei due Paesi non è in gioco solo la dignità delle persone Lgbti, ma anche le sorti di un’Europa intesa come società aperta, che rispetta i diritti di tutte e tutti, di un’Europa unita e federale. E sì, il rischio di un effetto domino c’è eccome e l’Italia è l’anello debole che rischia di essere il prossimo a cedere. Siamo di fronte a uno sforzo coordinato, e molto ben finanziato, di forze reazionarie che hanno individuato nei diritti Lgbti il chiavistello per scardinare i diritti sessuali e riproduttivi delle donne e, in ultimo, aggredire l’idea stessa di diritti umani come individuali e universali. Uno dei centri di quest’attività coordinata è il Congresso mondiale delle famiglie che, per ampliare lo sguardo oltre l’Europa, sta anche dietro alla terribile proposta di legge anti-Lgbti attualmente in discussione al Parlamento ghanese e che, non a caso, ha tenuto la propria conferenza globale nel 2019 proprio a Verona, come i lettori ricorderanno. Nel 2017 erano andati in Ungheria e vediamo oggi come anche Orbán abbia iniziato a concentrarsi sui diritti Lgbti dopo aver usato nello stesso modo il tema dell’immigrazione. Nel 2016 erano stati in Georgia e abbiamo visto cos’è successo quest’anno al Tbilisi Pride. A Varsavia erano andati già nel 2017, ma hanno dovuto attendere che la situazione politica mutasse a loro favore. Naturalmente sono andati anche in altri Paesi occidentali, ma l’Italia è l’unico tra questi ad aver attribuito loro un riconoscimento formale di così alto livello. Per fortuna la società civile ha mandato un segnale forte di resistenza.
Il dibattito sul ddl Zan ha visto parlamentari, vescovi, femministe, attiviste lesbiche utilizzare medesimo linguaggio e medesimi argomenti soprattutto contro l’identità di genere in linea con quanto avviene nei Paesi citati e in totale controtendenza con l’indirizzo ordinamentale e legislativo europeo. Di che cosa è segnale un tale fronte comune?
È un segnale estremamente inquietante che dimostra la perniciosità di certe narrative, in particolare quella definita da alcuni come «eteroattivismo», che prendono e pervertono il linguaggio e la retorica dei difensori dei diritti umani per usarla contro gli stessi. Si definisce così l’eteronormatività come una lotta per i diritti umani della famiglia naturale, della religione, e così via. Non possiamo assolutamente permettere che il nostro più grande successo, quello di aver saldamente inserito i diritti Lgbti all’interno dei diritti umani, venga messo in discussione e credo che anche noi dobbiamo essere molto attenti a non indebolire questo ancoraggio fondamentale.
Il sentire della popolazione italiana al riguardo è agli antipodi come ha dimostrato anche la straordinaria raccolta firma lanciata da Da’ voce al rispetto con Change.org e All Out, di cui tu sei senior campaign manager. Quale la tua valutazione?
Come sempre la società italiana è più avanti della politica. Noi radicali lo abbiamo imparato già con i referendum su divorzio e aborto, lo abbiamo visto nel 2000 con il World Pride, nel 2019 con la straordinaria mobilitazione contro il Congresso di Verona, con la grande campagna di Da’ voce al rispetto nel 2020 e 2021. E lo stiamo vedendo in questi giorni anche con l’entusiasmo di tante cittadine e tanti cittadini che firmano il referendum sull’eutanasia.
Quali sono i passi da fare nell’immediato a livello italiano ed europeo a tutela delle persone Lgbti e della piena parità?
A livello europeo abbiamo finalmente una strategia Lgbti che traccia chiaramente la linea: estendere l’elenco dei reati dell’Ue ai crimini d’odio, compreso l’incitamento all’odio omotransfobico (si tratta di reati sui quali l’Unione stabilisce gli obiettivi da perseguire, lasciando ai singoli stati membri l’individuazione degli strumenti e delle fattispecie giuridiche. Tra questi reati figurano già la tratta di esseri umani, il narcotraffico, lo sfruttamento delle donne); presentare una normativa sul riconoscimento reciproco della genitorialità in situazioni transfrontaliere; difendere i diritti Lgbti anche fuori dai confini dell’Ue, un punto fondamentale alla luce anche di quanto sta avvenendo in Afghanistan e su cui l’Ue deve fare molto di più. E qui entriamo nuovamente in gioco tutti noi, dobbiamo vigilare costantemente e premere affinché l’Ue tenga fede ai propri impegni.
Per quanto riguarda l’Italia c’è la grande partita del ddl Zan, naturalmente, ma anche quella del riconoscimento alla nascita dei figli per i genitori Lgbti e l’estensione di tale riconoscimento ai minori già nati: ricordiamoci che ben due sentenze della Corte costituzionale chiedono al Parlamento di sanare questo vulnus. E poi ci sono i temi della strategia nazionale Lgbti, che dal 2015 l’Italia non ha più, della Commissione indipendente sui diritti umani (è uno scandalo che il nostro Paese ancora non ce l’abbia), e di quello che, a mio modo di vedere, è più urgente perché riguarda una delle più atroci violazioni dei diritti umani ancora perpetrate in Italia: il divieto di interventi chirurgici cosmetici su bambini intersex.