Uscito il 14 ottobre, L’orizzonte rosato del tempo (Baldini+Castoldi, Milano 2021, pp. 356, €18,00) è l’ultimo intenso lavoro poetico di Lillo Di Mauro, raffinatissimo intellettuale che, formatosi nel clima rivoluzionario degli anni ’70, ha partecipato come omosessuale alle lotte per i diritti e per il riconoscimento del valore delle differenze. Impegnato nell’ambito del volontariato, il poeta è anche vicesindaco di Sutri, incarico che gli è stato affidato lo scorso anno dal primo cittadino Vittorio Sgarbi. Ed è proprio il critico e storico dell’arte ad aver scritto una densa prefazione a L’orizzonte rosato del tempo.
Sgarbi definisce il tuo canto “senza consolazione”, “disperato”. Da cosa nasce il tormento che attraversa i versi della tua raccolta?
I miei tormenti ancora me li porto addosso a causa di una vita segnata da drammi interiori. La solitudine della mia fanciullezza e in parte della mia adolescenza ha coinvolto tutta la mia esistenza condizionandola. A sei anni ho avuto il primo rapporto sessuale: di quei momenti ho solo il ricordo di un forte dolore piegato su una sedia all’interno di una falegnameria. Da quella prima esperienza ne sono seguite molte altre consumate nelle stalle. C’è un particolare che mi accompagna: l’odore acre del piscio degli asini e quello degli uomini quando ancora adolescente andavo a cercare amore nei vespasiani dei lungoteveri di Roma. Rapporti vissuti nella totale innocenza, convinto che fossero naturali, invece ben presto dovetti accorgermi che forse stavo facendo qualcosa di “strano”, di “sbagliato” perché i ragazzi poco più grandi di me iniziarono a chiamarmi “femminella”. Da quel momento la mia vita cambiò: iniziai a nascondermi, a chiudermi in me stesso, a vivere un dramma interiore tra quelli che erano i miei istinti naturali e la paura di sbagliare. Il mio tormento non potevo confidarlo a nessuno, i miei genitori erano già anziani e presi dal loro lavoro, i miei fratelli non vivevano in casa, a quella età non si hanno amici. Non avevo gli strumenti culturali per comprendere quanto stava accadendo, la mia natura, il mio essere. Ho solo evitato l’esposizione: mi rifugiavo nella preghiera rivolta soprattutto alla Madonna, forse alla mamma che non era presente, a quella mamma che, forse, consapevole del mio orientamento sessuale, provò ad arginarla mandandomi in un collegio per preti ad Anagni dove, quanto iniziato a Sutri, continuò con i responsabili della clausura.
Ricordo la paura che vissi, quando un giovane con il quale avevo rapporti, una volta mi disse: “Ti ho messo incinta”. Ne fui sconvolto perché ero terrorizzato dalla pancia che poteva crescere e svelare il mio segreto. Quando si è bambini non si ha la consapevolezza della vita, della cultura sociale, non si conosce il proprio essere, non lo si imbriglia in un concetto, in regole prestabilite; ci si abbandona agli eventi mossi dal proprio spirito, dalle proprie inclinazioni senza inibizioni, non si comprende il concetto di “sbaglio”. La società attuale non è troppo diversa da quella contadina, ancora arcaica, della mia fanciullezza. Lo sfottò, la violenza verbale e fisica, l’ipocrisia appartengono a un retaggio antico che stenta ad essere superato. Il singolare destino delle nostre vite di omosessuali sin dall’antichità appartiene al mistero che lo trasforma in un abominio, in qualcosa di mostruoso, generando nelle masse la crudeltà, la vertigine, la tendenza a emarginare, nascondere, generando in noi problemi che viviamo sulla nostra pelle come ustioni che segnano e lasciano ferite. Le radici del pregiudizio hanno origini indefinite, il contorto pensiero ipocrita dei “benpensanti”, aggrovigliato e corrotto, annienta l’onestà attraverso l’uso violento del potere. Le nostre esistenze non aderiscono alla realtà sociale o almeno non ci viene concesso di aderirvi in maniera chiara e compiuta perché essa non si connette con le nostre esigenze originarie. L’opacità delle loro vite tende a espandersi e assorbire tutto ciò che non rientra nei loro canoni.
Che ruolo occupa la tua terra, la tua appartenenza al Lazio vetus, per dirla con Luca Cesari, all’interno di questa tua nuova produzione lirica?
La prima sezione o capitolo praticamente parla esclusivamente dei ricordi della mia fanciullezza e quindi della mia terra, di Sutri una città in cui la natura, i colori, le essenze profumate, le vestigie antiche, le delicate architetture hanno adottato e affascinato ogni viandante, ogni pellegrino, ogni re o papa che vi è passato come fa una madre amorevole. Una città dove sono nato e dove ho vissute le mie prime esperienze sessuali, una città che ho portato con me sempre, nella vita, ovunque io abbia vissuto. Sin da quando a otto anni fui trasferito in un collegio di Anagni per diventare prete, dal quale mio padre mi rapì per riportarmi a casa, fino a Roma dove ho trascorso tutta l’adolescenza fino ai trenta anni, nei miei libri di poesia, nella mia narrazione. La mia terra è la mia identità, essa appartiene alla mia storia ed ha contribuito alla formazione del mio pensiero. C’è a Sutri, come bene esprime Cesari, qualcosa che si espande, che trascende dalla sua fisicità, vi è una energia che attraversa chi vi vive, lo condiziona, crea un legame quasi libidinoso. La Sutri della mia infanzia era composta da una società agricolo pastorale, c’erano poche autovetture e ci si muoveva a piedi o con gli asini e i muli, gli uomini la mattina andavano in campagna e le donne cucinavano, le strade erano pregne di odori dall’acre fumo dei camini, alle minestre sul fuoco, le porte aperte delle case, le campane delle chiese che rallegravano con i loro rintocchi, le forti relazioni familiari e sociali dove nessun individuo era lasciato solo. Tutto era pervaso dalla cultura cattolica, bigotta, perbenista in cui tutti si identificavano, le influenze esterne arrivavano per radio e in case come la mia per televisione. In questa realtà sono cresciuto, ho giocato, ho vissuto le mie esperienze laceranti ma spesso anche emozionanti il paesaggio bucolico, la natura verdissima e umida, la roccia di tufo i muschi e i licheni, la relazione con mia madre che ha sempre rivestito un ruolo importante e imprescindibile nella mia vita. Il sentirmi dominato dalla paura irrazionale degli altri, strumentalizzato, avvilito, frustrato ha condizionato la mia spontaneità attraverso divieti ai miei sentimenti, ai miei istinti ricordo quando in seconda elementare entrai in aula triste e piagnucolante, alla richiesta di spiegazioni della maestra risposi che mi ero innamorato di un uomo bello che mi era apparso in sogno ed ella, imbarazzata, sviando il discorso mi disse: “ma sei impazzito? È solo un sogno, quell’uomo non esiste e non devi pensarci” mentre io stavo soffrendo terribilmente. Tutto ciò ha creato notevoli difficoltà all’affermazione del mio narcisismo ancora oggi.
La mia terra è un po’ il racconto dell’India di Pasolini perché come quella terra è caratterizzata da contraddizioni: la miseria, la sporcizia, la violenza della cultura arcaica ma anche la bellezza dei paesaggi, la storia millenaria, la ricchezza d’animo delle genti che la vivono. Alzarsi ogni giorno in India deve essere un incubo, eppure gli indiani sanno sorridere ed il loro è un sorriso di dolcezza. Una terra che mi ha aggredito ma ha saputo darmi anche rifugio, che mi ha formato e fortificato attraverso le notevoli difficoltà. Sofferenze e difficoltà che mi hanno spinto nella vita, sia sul piano etico che umano, ad impegnarmi verso i più deboli, a dare il mio contributo, sempre in seconda linea, al movimento omosessuale. Difficoltà e sofferenze che mi hanno spinto verso la conoscenza, verso il piacere dell’arte e del bello, verso la lettura e la poesia, in un processo dinamico che ha modificato culturalmente la mia personalità. Ho imparato ad ascoltare senza giudicare ad esserci senza invadere, ad amare senza essere ricambiato, forse per questo la vita da trentasei anni mi premia con l’amore dell’uomo che ho affianco. Portato all’amore, ho trasferito l’amore ai miei bambini: i figli dei detenuti e quelli detenuti con le loro madri, ai minori sottoposti a provvedimenti penali. Mi sono trasformato in quella mano tesa che tanto ho desiderato quando, bambino e solo, non trovavo aiuto al mio dolore.
Quanto è presente l’eco pasoliniana nella tua versificazione?
Moltissimo. Non nascondo che vorrei scrivere poesia come lui, come lui vorrei avere la capacità di raccontare il mondo e l’umanità in versi; a volte, mentre scrivo, vivo una specie di immedesimazione, soprattutto quando racconto gli anni della mia fanciullezza e gli anni ’70 a Roma. Pasolini è stato indirettamente il mio mentore. Leggendo le sue opere mi sono formato e in questa raccolta vi sono molte liriche fortemente influenzate dal suo stile. Ma vi è qualcosa che mi lega a lui e di cui vado orgoglioso: il racconto della verità, la capacità di non temere il giudizio degli altri benpensanti. Scrivere liberamente contro il cinismo e il disumano moralismo. Come lui, vivo profonde contraddizioni legate alla religione, alla spiritualità, al rapporto con mia madre e al legame con il passato. L’eco pasoliniana la si può ritrovare nell’utilizzo della poesia come strumento di denuncia e di lotta a difesa della propria moralità e della dignità della propria intimità. È, infatti, una poesia che confessa, che tende a trasmettere la verità della propria esistenza. Una poesia spontanea, concentrata sull’io, sulla testimonianza di sé e della propria omosessualità. Una poesia che si avvicina alla prosa perché racconta, non è ermetica, è costellata di impurità estetiche dove le assonanze prevalgono sulle rime.
Cosa ricordi del tuo incontro con Pasolini e qual è, a tuo parere, l’attualità del suo pensiero?
Gli occasionali, rari, incontri con Pasolini avvenivano a Termini, di notte, quando andavo a “battere”, ovvero a tentare di incontrare un coetaneo con cui fare sesso e di cui innamorarsi, perché quelli erano i luoghi in cui eravamo relegati, come in recinti dove tutto poteva accadere senza essere disturbati: Termini, Circo Massimo, i vespasiani dei Lungoteveri, i cinema d’essai come il Nuovo Olimpia, poi Monte Caprino. A me, Pasolini fisicamente non piaceva, i suoi sguardi, gli ammiccamenti non mi interessavano, egli era per me come tanti altri omosessuali adulti in cerca di sesso e amore. Il mio incontro con lui posso definirlo più spirituale. Nutrivo nei suoi confronti un profondo rispetto. Tutti sapevamo chi era: lo scrittore, il regista. La curiosità mi aveva spinto a leggere i suoi romanzi e il primo che lessi fu Ragazzi di vita: avevo 17 anni. Le sue poesie mi commuovevano, gli articoli sul Corriere della Sera mi davano voce e mi facevano sentire meno solo. E l’unica volta in cui gli rivolsi la parola, gli dissi: Sei per me un maestro di vita, grazie a te mi sento meno solo per questo ti ringrazio, gli dissi che ero di Sutri ed egli mi parlò della sua nuova casa di Chia, realizzata sui ruderi di un castello e del suo amore per la mia terra, la Tuscia. Lui si muoveva con circospezione, quasi con timidezza, molti lo conoscevano per lo più ragazzi disponibili per soldi a fare sesso. Lo rincontrai anni dopo con Dario Bellezza una sera a Piazza Navona, nello stesso luogo in cui il 3 novembre del 1975, cioè il giorno successivo al suo barbaro assassinio, con Dominot rappresentammo senza preavviso, una performance dal titolo Un gesto per Pier Paolo Pasolini, in suo onore e ricordo.
È innegabile l’attualità del suo pensiero che combatteva il moralismo e l’omologazione. Omologazione, moralismo, provincialismo che ancora oggi dominano il pensiero piccolo borghese contro cui ha combattuto Pasolini con i suoi scritti e con le sue rappresentazioni cinematografiche. Egli predisse quanto sarebbe accaduto in questa Italia consumista e nullista che si configura come una dittatura che attraverso i media e i social ha generato il pensiero unico, l’omologazione da cui consegue la morte della cultura. Lui attribuiva l’origine di tutto ciò al boom economico degli anni ’60 che ha mutato costumi, differenze culturali e pratiche di vita. Egli era contro quanto oggi si è verificato perché riteneva che non fosse questo il modello di modernizzazione. Perché quando il processo si avviò, non avvenne gradualmente ma irruppe in un contesto cultuale che generò una folle corsa collettiva al consumo, annullando valori e riferimenti culturali, generando una mutazione antropologica che, oggi più di ieri, non riesce a trovare una sua identità.
È evidente, sin dai primi componimenti, che le tue poesie sono anche espressione di una ribellione alle mistificazioni del presente, una ribellione condotta attraverso l’elaborazione di “parole scandalose” per dirla con Pasolini. Quali sono le parole scandalose nella lirica di Di Mauro?
È nella verità lo “scandalo”, nella ribellione alle mistificazioni e all’omologazione contro una visione culturale borghese che tende alla finzione e all’ipocrisia soprattutto quando ci si riferisce alle differenze sessuali. Il poeta è per definizione scandaloso perché attraverso le parole evoca suggestioni, tormenti dell’anima, intimità, verità scomode trasmette messaggi che colpiscono l‘immaginario. Le mie poesie a tratti graffianti, tristi, sconvolgenti tendono a trasmettere una verità e la verità è di per sé scandalosa in una società ipocrita e bigotta come quella in cui siamo chiamati a vivere. Le parole sono scandalose quando non usano filtri per descrivere e raccontare il vissuto. Saba scandalizzò la borghesia ben pensante con il suo Ernesto. Io parlo della mia vita complessa, della mia infanzia dei dolori vissuti per la solitudine in cui ero costretto dalla consapevolezza della mia sessualità, del sesso vissuto forse prematuramente, della mia sessualità che non ho potuto allora vivere liberamente. Ma se per alcuni le mie parole sono scandalose per altri parlano di amore, di sentimenti puri vissuti da un bambino. Sono frammenti di vita vissuta istintivamente da un bambino consapevole di sé. Parlare nei miei componimenti apertamente del piacere che provavo e che provo per il corpo di un uomo, del sentimento di amore che pervadeva la mia vita rivolto a chi ho amato desiderato questo desta scandalo, non c’è nulla di scandaloso nella parola in sé ma in ciò che essa evoca. Le mie parole sono coraggiose, raccontano la mia vita senza filtri e senza timori, qualcuno dirà sfacciatamente, ma con il grande desiderio di aiutare i lettori a liberarsi dalle loro catene del pensiero comune e dai loro pregiudizi, conoscere le fragilità di chi viene relegato ai margini della società perché “diverso”. In questa società c’è bisogno di verità liberando la parola dal vittimismo. Sui social viene riproposta pedissequamente la stessa ipocrisia, sui social si esprime violenza e ignoranza per questo, purtroppo, non hanno aiutato l’umanità a migliorarsi ma l’hanno resa più tracotante. I social pur avendo dato ad ognuno la possibilità di partecipare, entrare nella comunicazione collettiva, non hanno rappresentato una rivoluzione culturale, al contrario si sono trasformati nella cassa di risonanza della volgarità generando confusione e perdita totale di valori e di punti di riferimento. La gente a causa dei social e del digitale non legge più, non entra in intimità con la carta stampata e la parola, non approfondisce sta cambiando in modo radicale la struttura sociale per me in negativo. Ecco quindi che la poesia, il racconto della verità, non solo crea scandalo ma suscita reazioni violente oltre ogni umana immaginazione. Nella mia poesia non v’è un potenziale rivoluzionario, non vuole essere rivoluzionaria, tende solo a raccontare ciò che un omosessuale è costretto a vivere a causa dell’emarginazione, della derisione, dell’offesa alla propria dignità, della mancanza dei diritti. È vero invece che il racconto sulla naturalità dell’esistenza e la freschezza della parola possono suscitare un processo evolutivo, possono aiutare a far prendere coscienza di un problema. La rivoluzione è nella rottura dei tabù e noi con le nostre vite, con i nostri coming out, stiamo agendo in tal senso.
Il ricordo dei luoghi, degli affetti e dei trascorsi desideri ispira gran parte dei tuoi versi. Che peso ha il tempo nella tua poesia?
Al contrario di Baudelaire che nei fiori del male racconta degli effetti devastanti del tempo sull’uomo, crudele, che ci divora inesorabilmente percependo per questo un vuoto nell’esistenza: O dolore, o dolore, il Tempo si mangia la vita/e l’oscuro Nemico che ci divora il cuore/cresce e si fortifica del sangue che perdiamo, per me il tempo è un orizzonte rosato e come tale riveste un ruolo fondamentale nella mia poesia che è il racconto della mia esistenza. Ho molta fiducia nel tempo anche perché esso per me non coincide con l’età. Il tempo non mi ha fatto vergognare, ma ogni volta mi ha reso più attento a me stesso. Nel tempo vi è una magia, nei suoi spazi anche se durano solo attimi come i sogni, ritrovo il senso alla mia vita. Nel tempo si dipanano pensieri, il trascorrere degli eventi, nella sua dimensione, nel suo spazio invisibile vi è tutto ciò che sono stato, tutto ciò che ho vissuto i dolori e le gioie, gli amori e gli abbandoni tutto ha avuto un ruolo nella costruzione del Lillo che racconto nella mia poesia. Ed ecco quindi che gli incontri, gli amori anche quelli “oscuri” hanno avuto nella mia vita, nella costruzione del mio tempo un ruolo fondamentale, determinante. Se è vero che ho attribuito alla poesia un ruolo esorcizzante, una cura ai dolori che la mia condizione di omosessuale mi ha procurato è pur vero che quegli incontri, quegli amori, me li porto dentro insieme al mio mondo presente. Non ho mai fatto distinzione assolute tra bene e male, felice/infelice, se lo avessi fatto avrei capito poco del mondo e di me stesso. Ai ricordi e alle esperienze infelici ho cercato sempre una ragione che non me li fa ricordare come incubi ma come tasselli che mi hanno aiutato a costruire la mia personalità. Quel falegname che mi piegò su una sedia viveva condizioni di vita sociale e biologica tipiche del mondo contadino che non erano certo idilliache. Era normale che accadesse, che un adolescente soddisfacesse le sue voglie, le sue fantasie sessuali sul corpo di qualcuno più giovane di lui, possiamo paragonarlo ad un gioco che a volte assumeva caratteri violenti, altre di puro piacere. Quel mondo religioso contadino che non tornerà, come sarebbe piaciuto a Pasolini, anche se era consapevole che era tutta un’illusione e infatti in un articolo, sospirando scriveva che gli sarebbe piaciuto tornasse “l’antico modo di sorridere” dei ragazzi, ora rovinati dal grigiore piccolo-borghese, ma concludevaamaro: “Lo so, sto farneticando”. Ho incontrato persone che mi hanno insegnato la conoscenza, ad apprezzare il bello, l’arte, a sviluppare la mia poesia. Persone che mi hanno guidato, sostenuto, aiutato. Io ero un giovane provinciale catapultato in una città in fermento culturale e sociale come era Roma in quei primi anni ‘70 ed ero immerso in sogni e in certezze che si esprimevano negli affetti e negli scritti. Ero interprete nel teatro di avanguardia, lavoravo con Dominot al Convento Occupato, frequentavo i circoli politici e i pochi locali per omosessuali, i luoghi d’incontro i cinema d’essai. Lottavo con gli amici omosessuali contro le discriminazioni e mi stavo fortificando senza accorgermene e divenni ciò che mi fa compiacere di me. Sono felice di non avere rimpianti perché essi hanno un’azione corrosiva sulla vita. Accade invece che un profumo, un suono, la sacralità di un luogo, un’alba o un tramonto, le luci della notte mi evocano ricordi impudichi, sublimi, magici, onniscienti come i sogni o, a tratti si dispongono con la fissità di una tela dipinta suscitando in me una dolce, struggente nostalgia alla quale mi abbandono consapevole che il presente non è che una transizione tra la memoria da coltivare e il viaggio verso l’utopia. La cosa più spettacolare di noi omosessuali è la nostra resistenza, la tenacia a sopravvivere laddove il più virile degli uomini piangerebbe disperato come un bambino.
Credi che il tormento presente nei tuoi versi abbia scaturigini anche nella condizione di persona omosessuale, che ha vissuto un’epoca in cui si era spesso confinati nell’angusta dimensione della segretezza e della colpa?
In gran parte sì ma quell’epoca, a parte la tecnologia, la moda, le condizioni economiche e sociali, non è ancora trascorsa. La violenza che viviamo noi omosessuali sia verbale che fisica non ha paragoni con il passato. La televisione, l’uso sbagliato dei social, i miliardi di informazioni rendono gli individui consumatori senza coscienza critica. Il mio tormento è nella estenuante fatica che ho dovuto fare per guadagnarmi uno spazio nella società in quanto omosessuale. Il lavoro che svolgo, l’impegno nel campo politico e sociale, i rapporti interpersonali sono permeati e condizionati dalla mia condizione e se da bambino tacevo la mia verità, mi chiudevo in me stesso da adolescente rivelandola ho dovuto combattere il pregiudizio trovando rifugio soltanto nel mondo clandestino della notte, nei recinti che la cultura borghese e bigotta ci aveva relegato. Oggi ho raggiunto obiettivi nel campo del lavoro, delle relazioni sociali e ambientali che mai avrei immaginato. Quando nei primi anni ’80 tornai a vivere nella mia città di origine, forse perché volevo mettermi alla prova con un passato che aveva segnato la mia esistenza, inconsciamente per riscattare quegli anni bui della mia fanciullezza, venni additato come omosessuale, drogato, pervertito pur se la mia realtà era tutt’altro, poi il tempo ha portato la gente ad avere fiducia di me a non avere più timore della diversità al punto da eleggermi in consiglio comunale. C’è poi un tormento che scaturisce dal frastuono insopportabile che mi circonda, un frastuono che tento di strapparmi con forza dalla carne mangiata dai rumori del quotidiano. Ma anche il tormento legato alla carne, al desiderio del bello che trovo nei corpi dei ragazzi. Tournier nel Re degli ontani dice: I sogni hanno bisogno della carne per manifestarsi. Un desiderio che nulla toglie all’amore che nutro per il mio compagno con il quale convivo da 36 anni, perché appartiene alla mia solitudine, a quella intimità che mi parla un linguaggio domestico, infantile, speciale che solo chi ama il silenzio può conoscere, quello stesso silenzio che da bambino era circondato da paure, presenze acide e spettrali.
Nei tuoi versi sembra di cogliere una sorta di “dolore del desiderio”: che ruolo ha o ha avuto il desiderio nell’immaginario sentimentale dell’uomo e del poeta Lillo Di Mauro?
Rispondo con dei passi tratti da Il marchesino pittore di De Pisis: Non è che la povera ansia che spinge questo povero marchesino, come tanti compagni…la speranza di incontrare l’amore sulla sua strada….Amore non si incontra per le strade degli uomini, ma almeno una forma, un’ombra, un sorriso…E continua dicendo a se stesso: “ già l’anima gemella…la creatura sensitiva e intelligente….come cercare la luna nel pozzo… Già carino, l’amore con la lettera maiuscola! Sta tranquillo, non senti che hai sonno? Dormi o lavora piuttosto. Ma c’è il mistero della vita che mi uccide. Parliamo d’altro mon cher