La notizia del monsignore che, dimorante nel Palazzo del Sant’Uffizio, è stato allontanato per orge a base di cocaina ha fatto in breve il giro del mondo. Una vicenda boccaccesca che, se da una parte fa sorridere per taluni particolari, dall’altra apre il campo a un’ampia riflessione. Viene in primo luogo da chiedersi perché un fatto avvenuto quattro mesi fa viene dato in pasto all’opinione pubblica solo oggi e, per giunta, nel giorno del Concistoro.
Prima di rispondere, è necessario riassumere l’accaduto anche per ampliare la narrazione offertane da Il Fatto Quotidiano. E chiarire, innanzitutto, che si tratta dell’oramai ex segretario del cardinale Francesco Coccopalmerio. Dato essenziale per capire il perché d’una certa narrazione giornalistica. Il sacerdote lavorava da decenni presso il dicastero retto dal porporato lombardo ed era noto per una certa affezione a una “purezza dottrinaria” non meno di quella per vesti liturgiche, pizzi e merletti. Nessuna meraviglia al riguardo. L’integrità dottrinaria è spesso per taluni ecclesiastici un paravento, dietro cui nascondere un’omosessualità disinvoltamente praticata, quando non è un mezzo di autolegittimazione di contro alle reiterate condanne magisteriali di quella condizione.
A partire da quelle, apparentemente mitigate, dello stesso pontefice. Di cui ancora una volta viene data l’immagine del papa riformatore, che interviene con fermezza per rinnovare la Curia come nel caso in questione. Del papa che sventa l’eventuale elezione episcopale del monsignore omosessuale tutto orge e droghe – in realtà era in predicato per un canonicato in San Pietro – e la cui azione è esaltata da un anonimo presule bergogliano, che sarebbe da individuare come gola profonda della faccenda.
Eppure, nulla si dice dell’anomala irruzione notturna della gendarmeria vaticana nell’abitazione dell’ecclesiastico – sì, abitazione come ce ne sono tante all’interno del Palazzo del Sant’Uffizio contrariamente a quanto riportato da Il Fatto – e dell’annosa conoscenza bergogliana del viavai maschile nella stessa. Irruzione avvenuta nel bel mezzo di un’animata gang bang ecclesiastico-laicale con tanta di quella droga da portare all’arresto per spaccio dell’incauto monsignore. Poi, la degenza alla Clinica Pio XI, dove io stesso ebbi modo d’incontrarlo a fine aprile e di sentirlo parlare di “brutta polmonite” nonché di stupefacenti elogi continuati a Oltretevere.
Ora, al di là di tutto, è il giustizialismo e il doppiopesismo papale a lasciare interdetti più del chem sex al Sant’Uffizio. Un papa, che parla fino alla noia di misericordia, dovrebbe avere a cuore le sorti dei propri collaboratori e richiamarli opportunatamente, una volta informato, prima di permettere di punto in bianco le retate notturne. Che poi, pur volendo ammettere certe modalità degne di Sisto V, si richiederebbe che siano applicate sempre, visti i numerosi casi consimili in Curia e al di fuori. Viste le non poche nomine episcopali di soggetti notoriamente omosessuali.
Sorge poi l’ultimo quesito sulla tempistica della notizia, diffusa, come s’è detto, nel giorno del Concistoro. Non è possibile non notare la volontà di accreditare ancora una volta l’immagine del papa che, incarnando finalmente i valori evangelici, si batte con fermezza per riformare le chiesa ed eliminare le mele marce a iniziare da quelle curiali. Fatte salve però, ovviamente, quelle che più direttamente lo circordano e per le quali i distinguo si moltiplicano.
Operazione mediatica, questa, quanto mai necessaria per un concistoro, sul quale grava la grave ombra della promozione alla porpora dell’arcivescovo di Bamako. Un altro presule di quelli tutto purezza e carità ma con conti bancari svizzeri da capogiro. Ecco, il caso del monsignore del chem sex mostra, in ultima analisi, che a essere preoccupante non è tanto la vicenda in sé (una delle tante) ma un tipo d’informazione giornalistica tutta prona verso Bergoglio e panegiristica nei riguardi dello stesso. Insomma un vero e proprio caso di cortocircuito mediatico.