«Se n’è andato l’autore di Anonimo lombardo, lo scrittore che negli anni sessanta, dalle colonne del Corriere, inoculò con stile nella piccola borghesia lombarda il virus Lgbt+».
Con queste parole, a corredo di una foto scattata alcuni anni addietro a Roma presso Palazzo Primoli in occasione di un convegno dedicato a Mario Praz, il poeta e accademico Franco Buffoni ha ricordato su Facebook Alberto Arbasino, uno degli intellettuali più raffinati e sagaci del XX secolo, spentosi domenica, all’età di 90 anni, nella natia Voghera (Pv).
Autore di opere indimenticabili come Le piccole vacanze, L’Anonimo lombardo e Super Eliogobalo, Arbasino fu tra i protagonisti del movimento neovanguardistico Gruppo 63.
E proprio nel 1963 diede alle stampe per i tipi Feltrinelli Fratelli d’Italia, romanzo, che, incentrato sulle vicende estive di due giovani omosessuali in viaggio per l’Italia e l’Europa, avrebbe conosciuto due successive edizioni: quella ampliata per Einaudi nel 1976 e l’ultima, monumentale, per Adelphi nel 1993, che fu finalista al Premio Campiello 1994. Uno dei grandi meriti di Arbasino, lui stesso omosessuale dichiarato, è stato certamente quello di aver sdoganato, non soltanto in Fratelli d’Italia, personaggi gay fuori dal cliché vittimistico e autopunitivo della consolidata tradizione letteraria italiana.
«Alberto Arbasino – così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – ha impresso un segno nella letteratura italiana del Novecento e la sua scomparsa lascia un vuoto, insieme a un patrimonio prezioso e originale. Desidero esprimere anzitutto il mio sentimento di vicinanza e di solidarietà ai familiari e a quanti con lui hanno condiviso amicizia, esperienze, confronto intellettuale».
Il Capo dello Stato, che ha voluto anche rendere omaggio all’uomo politico (l’intellettuale fu infatti deputato nel gruppo del Pri dal 1983 al 1987), ha quindi aggiunto: «Arbasino è stato uno scrittore di grandi qualità e creatività, un romanziere innovatore, un uomo di cultura poliedrico, tra i motori del Gruppo 63. La sensibilità con cui ha guardato la realtà si combinava con il coraggio della sperimentazione. Ha cercato espressione anche nella poesia. E con passione civile è stato giornalista, cercando sempre nella modernità strumenti utili alla narrazione e alla comprensione dei mutamenti, sociali e di costume. L’Italia si è arricchita del suo talento, e la cultura ne farà tesoro».
Lo scrittore Marco Rosari, marcando il funambolismo stilistico di Arbasino, ha rammentato che proprio per questo sua caratteristica il giornalista Edmondo Berselli lo aveva definito Arbasinho, mentre per la sua curiosità Ennio Flaiano lo aveva paragonato ad un bambino in una pasticceria.
Affranti hanno ricordato il maestro in vari commenti sui social anche lo storico e saggista Giordano Bruno Guerri, la regista Francesca Archibugi e il giornalista televisivo Massimo Bernardini.
«Arbasino nel tempo si rivelerà essere stato un grandioso memorialista, nel senso che i suoi ritratti di scrittori ma anche di chiunque sia passato sotto la sua penna, che punteggiano i suoi libri, sono memorabili e insostituibili». Così, invece, ne ha parlato lo scrittore e direttore editoriale di Adelphi, Roberto Calasso, intervenendo a Rai Radio 3. Ripercorrendo la carriera di Arbasino, Calasso ha sottolineato «la bellezza dei memorabili articoli usciti su Il Mondo di Pannunzio: erano qualcosa che facevano sentire un’aria diversa dall’establishment italiano. Gliene siamo grati. La sua vis polemica gli permise di attaccare frontalmente tanti che venivano venerati, ossequiati in ogni modo, di cui si tacevano grossi difetti. Con lui non passavano indenni certe mediocrità e certe fame un po’ usurpate».
A Gaynews l’ha invece così ricordato Paola Guazzo, voce autorevole del mondo intellettuale lesbico italiano e collaboratrice de Il Manifesto: «L’ho amato come un’amante del pop poteva amare David Bowie, in modo assoluto, leggendolo tutto e anche più volte. Triste vedere come i tg lo hanno raccontato parlando solo della casalinga di Voghera, quasi facendolo passare per il simpaticone che non era. È stato il più grande intellettuale geniale del Novecento italiano.
Penso con commozione a quell’Anonimo Lombardo dove le note a piè di pagina assumono la funzione metatestuale creando un’opera nell’opera, tra una citazione di Parini e una di Verdi, passando per Northrop Frye. Rivedo La Bella di Lodi e il suo gigolo ladro. Rileggo l’Eliogabalo camp che assomiglia a Monica Vitti, circondato dalle sue babbe (mamme col raffreddore) di Vigna Clara. Ripenso all’incipit memorabile di Fratelli d’Italia, in MG decappottabile con fermata di battuage nella pineta già dannunziana di San Rossore. Mi commuovo d’amore per la presenza incancellabile di letteratura e di vita».
Ci piace chiudere con qualche passaggio del ritratto che ne propone lo studioso Francesco Gnerre in un’opera cult della cultura Lgbt italiana quale L’eroe negato. Gnerre riconosce ad Arbasino di aver cancellato nella sua narrativa quell’aura di peccaminoso e pruriginoso che accompagnava la dimensione omosessuale nella tradizione italiana e di aver operato in tal senso con sferzante ironia e con uno straordinario uso della lingua.
Presentando Arbasino nel capitolo a lui dedicato, Gnerre scrive: «Arbasino amplia enormemente i discorsi sulla sessualità, e in particolare sull’omosessualità, sia con la messa in discussione della vecchia, bigotta, ipocrita morale sessuale predominante in Italia, sia con l’esibizione di comportamenti e pratiche omosessuali tradizionalmente taciuti o avvolti in un’aria di misteriosi ammiccamenti». Ovviamente, Gnerre precisa con dovizia di riferimenti che trattasi di una rappresentazione dell’omosessualità circoscritta ad una dimensione aristocratica e snob, quindi assolutamente priva di tratti eversivi e rivendicativi. Ma questa, comunque, è un’altra storia.