Sarà oggi depositato in Commissione Giustizia della Camera il testo unificato in materia di contrasto e prevenzione alle violenze e discriminazioni per orientamento sessuale, genere e identità di genere. Ne parliamo con Michela Marzano, ordinaria di filosofia morale all’Université Paris Descartes (Shs – Sorbonne), saggista, editorialista de La Stampa e già deputata del Pd nella XVII° legislatura.
Professoressa Marzano, qual è il suo parere su una legge che contrasta e previene l’omotransfobia e la misoginia?
Innanzitutto sono contentissima che se ne riparli. Come si sa, ho seguito tutto l’iter della legge contro l’omotransfobia nella scorsa legislatura: ero rimasta in primo luogo malissimo per lo stravolgimento che c’era stato alla Camera e, poi, avevo considerato insopportabile che si fosse impantanata in Senato. Ottimo segnale, dunque, che ci si torni anche se sono passati due anni. Mi auguro che non resti lettera morta, cioè che, oltre a essere calendarizzata, venga approvata e non venga stravolta sì da renderla inefficace e, dunque, utile. Sono poi contentissima che si sia cercato di mettere insieme le tre “P” (punire, proteggere, prevenire), di cui ci parla la Convenzione d’Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013. Essa fissa una strategia composita contro ogni forma di violenza di genere e include anche le discriminazioni per orientamento sessuale, proponendo agli Stati di fare di tutto perché si attuino delle norme nell’ottica del punire, proteggere e prevenire. La fase della punizione è stata quella finora perseguita in riferimento alle violenze contro le donne. Strada necessaria ma non sufficiente perché non basta punire per evitare che queste violenze, tanto verbali quanto fisiche, possano venire effettivamente meno. Dopo di che, il punto più importante è quello della protezione delle vittime e della prevenzione. Per cui sono molto contenta che in questa legge ci siano le tre “P”.
Qual è secondo lei il nodo gordiano dell’intera questione?
Credo che il nodo vero della questione, quello almeno su cui ci si era impantanati nella scorsa legislatura, è la tendenza da parte, soprattutto, delle destre, di omofobi, di maschilisti a confondere, a livello linguistico, l’insulto, l’incitamento all’odio, l’hate speech con l’opinione. Perché di fatto, nonostante tutto, resta questa incapacità di rendersi conto che, nel momento in cui incito all’odio o insulto una persona, io non sto più esprimendo un’opinione, ossia qualcosa su cui si dibatte, ma sto scivolando in quello che viene definito un atto linguistico. E l’atto linguistico è un atto di violenza. Quando io ricorro all’hate speech o insulto una persona non sto solo dicendo qualcosa, ma sto facendo qualcosa. Non sto soltanto incitando qualcun altro a fare ma sono io stesso che faccio. Sono io stesso che è come se tirassi uno schiaffo alla persona che mi è di fronte. Le parole sono pietre: non sono solo verba volant ma hanno questa capacità di azione: capacità di agire e fare male.
Qual è, più nello specifico, la differenza tra opinione e insulto?
È ormai appurato da tutti gli studi fatti sull’analisi del linguaggio e la filosofia del linguaggio – penso, ad esempio, ai lavori di John Langshaw Austin e John Searle – che c’è una differenza sostanziale. Differenza costituita dalla possibilità di argomentare. Quando io argomento ed entro in un dialogo, sto esprimendo delle opinioni. Opinioni su cui posso essere d’accordo oppure no ma, nel momento in cui si entra all’interno di una discussione, ci deve poter essere la possibilità di esprimersi. La differenza tra opinione e insulto è data dunque dal fatto che quest’ultimo blocca la possibilità di discussione. L’insulto è un altro tipo di atto verbale, utilizzato non per discutere ma per aggredire la persona che mi è di fronte.
Una delle obiezioni che vengono solitamente mosse alla legge è l’inutilità della stessa sulla base di presunte tutele penali già esistenti nel nostro ordinamento. Come risponderebbe?
La risposta è semplice. Esattamente come c’è stato bisogno per proteggere alcune differenze della legge Mancino, che prevede delle aggravanti per chi incita e commette violenze e discriminazioni per motivi etnici, razziali, nazionali o religiosi, c’è bisogno di prevedere un’aggravante specifica e, dunque, delle leggi specifiche per tutelare una categoria di persone, che vengono aggredite o insultate solo perché sono quel che sono. L’aggravante è importante perché, nel caso specifico, non si tratta di un mero gesto agito ma di un atto contro una persona presa a bersaglio per ciò che quella persona è. Tutto ciò è inammissibile: nessuno deve giustificare il proprio essere. Ognuno, deve giustificare il proprio agire ma non ciò che si è.
Tra le tante voci critiche alla legge ci sono anche quelle di alcune femministe della differenza, che insistono sul solo concetto di sesso biologico e vorrebbero pertanto cassato dal testo di legge ogni riferimento all’identità di genere perché lesiva per le donne. Che ne pensa?
Non sono assolutamente d’accordo. Il sesso biologico è una delle innumerevoli caratteristiche della persona. Non ho nessuna intenzione di sottovalutare il mio essere femmina ma il mio essere femmina va di pari passo con il mio essere donna e il mio essere eterosessuale. Ma io sto parlando di Michela. Esattamente come un’altra persona può essere biologicamente femmina ma, da un punto di vista di genere, è uomo o, da un punto di vista orientamento, eterosessuale, omosessuale o bisessuale. Il problema di questa corrente del femminismo è che c’è, di fatto, un utilizzo della biologia per tornare a una forma di essenzialismo. Io sono contro ogni forma di essenzialismo e considero quella sessuale una delle tante differenze che ci caratterizzano. Io voglio proteggere tutte le persone fragili, quelle, cioè, che vengono attaccate perché diverse dall’immagine che si pensa una persona debba incarnare.
Professoressa Marzano, lei ha aderito alla campagna nazionale Da’ voce al rispetto. Che ne pensa di questa iniziativa e del claim scelto?
Sono molto d’accordo che il movimento sia nato dal basso e in maniera inclusiva, perché si ha bisogno di costruire una società che non sia divisiva. E l’unico modo per includere, nel caso specifico, è cercare di spiegare come, in realtà, questa battaglia contro l’omotransfobia e la misoginia entra all’interno di una battaglia più generale sul rispetto, ossia sul riconoscimento della pari dignità di tutte e tutti indipendentemente dalle differenze. Il rispetto non lo si merita, il rispetto è dovuto a ognuno di noi indipentemente da come siamo o come non siamo. Penso quindi che il messaggio scelto per questa campagna sia il più bello, il più inclusivo e l’unico, di fatto, capace d’insegnare che non questa non è una battaglia circoscritta ma di tutte e tutti, perché è una battaglia di civiltà.