La questione del cognome comune, assunto dalle parti unitesi civilmente nel periodo compreso fra la data di emanazione della legge sulle unioni civili e quella dei decreti di attuazione, è stata ieri portata dinanzi alla Corte costituzionale dal Tribunale di Ravenna. Si tratta della prima questione di legittimità costituzionale su un decreto attuativo (n. 5/2017) della legge 76/2016, la cosiddetta legge Cirinnà.
A seguito di un procedimento promosso da Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford i magistrati ravennati hanno ritenuto come non manifestamente infondata l’eccezione mossa dai ricorrenti. Eccezione relativa all’incompatibilità, con i principi costituzionali e sovranazionali, del decreto attuativo della legge laddove esso ha stabilito che i cognomi comuni, assunti dagli uniti civilmente nel periodo intercorso fra la data di emanazione della legge medesima e quella di promulgazione del suo decreto di attuazione, dovessero essere cancellati.
Seguito dai soci avvocati Stefano Chinotti e Vincenzo Miri e dall’avvocata ravennate Claudia Calò, il casoera stato segnalato da una coppia di uomini che, nel giugno 2016, aveva costituito, pima in Italia, un’unione civile scegliendo il “cognome comune” ai sensi del comma 10 della legge sulle unioni. In forza del “decreto ponte” (D.P.C.M. del 23.7.2016) il cognome dell’unione era stato aggiunto al proprio da parte di uno degli uniti civilmente che, di conseguenza, aveva mutato la propria posizione anagrafica.
Emanando il decreto legislativo n. 5/2017, il Governo aveva tuttavia imposto una “retromarcia”, riducendo la portata del cognome comune a mero “cognome d’uso”. Veniva così disposta la cancellazione dello stesso dalle schede anagrafiche (e conseguentemente dai documenti: codice fiscale, carta d’identità etc.) di chi nel frattempo lo aveva assunto. Con lo scopo, in relatà, prioritario quanto malcelato di impedirne la trasmissibilità agli eventuali figli delle coppie omoaffettive.
Agendo ai sensi dell’art. 98 del DPR 396/2000, Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford ha così ottenuto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale che sarà, ora chiamata a pronunciarsi sulla «valutazione della compatibilità della norma con i principi costituzionali e gli obblighi comunitari».
La presidente dell’associazione Maria Grazia Sangalli ha rilevato come a essere in gioco sia la tutela del «diritto all’identità personale delle coppie che in base a una norma di legge hanno scelto come farsi identificare nel contesto sociale in cui svolgono la loro personalità. Non c’è alcuna motivazione giuridicamente sostenibile che possa giustificare un’intromissione arbitraria del Governo nella vita familiare delle persone».
A nome anche dei colleghi Miri e Calò l’avvocato Chinotti ha dichiarato ai nostri microfoni: «La tutela dei diritti riconosciuti dalla legge Cirinnà, almeno per le unioni costituite sino all’11 febbraio 2017 (data di entrata in vigore dei decreti attuativi), non può assolutamente essere frustrata da disposizioni normative che sono state emanate in via retroattiva. Ciò è in palese violazione di interessi fondamentali sia delle coppie sia dei loro figli».
Un risultato importante per un’associazione come Rete Lenford che, negli ultimi anni, si è imposta per la propria autorevolezza sullo scenario giuridico italiano soprattutto nel contrastare le discriminazioni nei riguardi di persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersex. Un risultato importante a due giorni dalla celebrazione del decennale di fondazione che si terrà con un importante convegno a Firenze presso Palazzo Vecchio.