Lush, la nota azienda britannica di prodotti cosmetici, è impegnata da anni nella lotta per l’uguaglianza dei diritti Lgbti+. Ultimamente ha deciso di supportare la campagna nazionale italiana Da’ voce al rispetto per una buona legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo.
Per conoscere meglio i motivi di una tale decisione ma anche la storia, i progetti, i risultati raggiunti dalla compagnia abbiamo raggiunto Alessandro Commisso, che ha creato alcuni dei prodotti più innovativi e distintivi del brand, come il primo gel per capelli completamente solido e nudo e i nuovi dentifrici gelatina. Alessandro, che ha iniziato la sua carriera in Lush in Italia 19 anni fa e vive dal 2013 nel Regno Unito, è anche una delle personalità più attive nelle campagne arcobaleno. Nel 2015 è stato inserito nella classifica dei Top 30 Lgbt Future Leaders dal quotidiano Financial Times.
Alessandro, si parla molto di Lush eppure spesso se ne ignorano origini e finalità…
Lush nasce il 12 novembre 1995 nel sud dell’Inghilterra da un gruppo di fanatici dei cosmetici con l’idea di rivoluzionare il mondo della cosmesi. I fondatori, tra cui Mark Costantine e Liz Weir, avevano deciso, dopo varie esperienze in questo ambito, di rinventarsi creando una realtà nuova. L’idea di base era molto semplice: imparare da tutti gli errori precedenti e cercare di non ripeterli per poi individuare un format vincente. Da qui hanno origine tutte le caratteristiche che ci contraddistinguono: la mancanza di packaging, l’attenzione a dove compriamo tutte le materie prime, l’eradicazione dei test sugli animali dalla catena di approvvigionamento dei cosmetici in fase sia iniziale sia finale. Fin dalle origini abbiamo cercato di lottare contro queste pratiche che sono così diffuse. Anche a livello di cosmetici abbiamo dunque cercato di essere sempre degli attivisti: più cresciamo e più abbiamo infatti potere d’influenza a livello decisionale, chiedendo ai nostri fornitori di non effettuare test sugli animali e restando così fedeli alla nostra fede vegetariana.
In quanti Paesi siete presenti?
Beh, siamo cresciuti a livello esponenziale. Siamo partiti da un negozio, che è ancora aperto, a Poole nel Dorset: i nostri fondatori hanno l’ufficio al piano superiore. Siamo presenti attualmente in 49 Paesi e abbiamo quasi 1.000 negozi. Una crescita che è avvenuta sempre in piena fedeltà ai nostri principi. Noi, ad esempio, non possiamo aprire in Cina sempre in ragione dei test sugli animali.
Da dove ha origine l’impegno di Lush nella lotta contro le varie forme di discriminazione?
È nato tutto in maniera molto organica. Tra i nostri fondatori soprattutto Mark è sempre stato attivo sul piano dei diritti umani e dei diritti degli animali. Aveva lavorato a lungo con Anita Roddick, fondatrice di Body Shop, che è stato un po’ il brand antesignano della partecipazione del mondo aziendale a quello dell’attivismo. Abbiamo fatto nostri questi principi riutilizzandoli sotto forma diverse. Le nostre prime campagne ovviamente erano soprattutto dedicate ai test sugli animali. Poi, nel 2007, abbiamo lanciato la Charity Pot, crema per le mani e per il corpo, il cui ricavato viene devoluto integralmente, esclusa l’iva, a un fondo che supporta piccole associazioni (con un’erogazione massima di 15.000 euro) per i diritti delle persone, comprese quelli Lgbti+, diritti degli animali, diritti digitali, diritti dell’ambiente. Charity Pot funziona in maniera diversa rispetto al tradizionale corporate funding: noi non scegliamo infatti un argomento destinando poi i fondi a chi ne parla. Si tratta di una piattaforma aperta a chiunque: ogni realtà può avanzare per un’iniziativa una richiesta di fondi, cui rispondiamo con donazioni medio-piccole. Erogazioni che possono essera anche di soli 200 euro, perché la nostra idea è di dare fondi a chi non li può avere altrove. Dare fondi, cioè, all’attivismo di base, a piccole realtà che fanno la differenza. Nella nostra ricerca all’inizio abbiamo scoperto che le realtà attivistiche più ancorate alla società sono quelle che hanno più difficoltà a ricevere finanziamenti.
Una tale ottica vale anche per realtà Lgbti+?
Certo. Infatti, anche quando collaboriamo con associazioni Lgbti+ a livelli di più alto profilo come con All Out, la parte di fondi va sempre a realtà che non ne potrebbero ricevere altrove. Una delle cose più belle che mi piace fare con Lush a livello di diritti Lgbti+ è partecipare ai nostri panel per la distribuzione dei fondi. Oltre a Charity Pot abbiamo istituito anche dei fondi per specifiche campagne. A tal riguardo una delle iniziative, per cui siamo divenuti famosi a livello globale, è stata la nostra campagna del 2015 #GayIsOk.
Abbiamo lanciato una saponetta dorata con brillantini e con l’hashtag menzionato. La storia di questa campagna deriva dal fatto che mettere una tale scritta rendeva la saponetta illegale in alcuni Paesi perché equivaleva a un’affermazione positiva dell’omosessualità. Illegale anche in Paesi in cui Lush è presente: non abbiamo, ad esempio, potuto venderla in Russia o negli Emirati Arabi. L’idea era questa: vendere la saponetta laddove era legale e raccogliere così fondi da erogare ad associazioni che lavorano in Paesi dove essere omosessuali è un crimine. La campagna è stata lanciata nello stesso anno in cui il matrimonio è stato legalizzato negli Usa e ciò ha avuti una grande eco a livello mondiale con l’hashtag #GayIsOk, che è divenuto virale. La campagan ha permesso di istituire il Love Fund: abbiamo 350.000 euro, che sono stati tutti spesi per i fini accennati. Tra le iniziative supportate anche una biblioteca Lgbti+ in Kirghizistan.
Perché Lush ha deciso di supportare Da’ voce al rispetto?
Era la cosa giusta da fare. Parliamo di diritti umani: perché non dovremmo parlare di temi Lgbti+ e, in particolare, di quello dell’omotransfobia, che coinvolge tantissime persone all’interno della società? Sappiamo che i nostri clienti ci supportano in queste iniziative, sappiamo che abbiamo la potenza di raggiungere tantissime persone a livello trasversale. Si tratta di un tema a cui il nostro staff si sente molto partecipe. E poi non avere una legge contro l’omotranfobia in Italia, mentre c’è nella maggior parte dei Paesi europei, è davvero assurdo.