Ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi, Torino 2020, pp. 459, €22), scritto e pensato come una cronaca dal vero, ma che nello stesso tempo ha la forma di un romanzo – con personaggi, luoghi, dialoghi, descrizioni e grazie al suo linguaggio ricco, denso e scorrevole –, con la voracità del lettore che vuole vedere come va a finire. Sì, perché la trama è costruita quasi come se fosse un giallo, nel quale si possono scoprire via via i tasselli necessari a comporre la soluzione del caso. Solo che il caso in questione era già chiaro sin dall’inizio e questo libro arriva dopo la celebrazione del processo di primo e di secondo grado, quindi, tecnicamente, il giallo non esiste. E allora cos’ha di così avvincente la storia che Lagioia ci racconta ne La città dei vivi? Cosa c’era da scoprire in quella drammatica vicenda?
I fatti sono noti. Nei primi giorni del marzo 2016 un ragazzo di 23 anni, Luca Varani, è stato ucciso da due giovani poco meno che trentenni, Marco Prato e Manuel Foffo, nel contesto di un festino a base di droga e sesso, previsto ma neppure consumato, con una modalità spaventosa fatta di sevizie e torture durate ore e ore.
La cosa incredibile è che nessuno dei tre ragazzi aveva il benché minimo motivo di usare violenza sugli altri. Addirittura Foffo e Varani non si erano mai visti e Foffo imparerà il nome della sua vittima solo dopo l’identificazione da parte delle forze dell’ordine. Luca Varani era stato attirato, in quella che poi si sarebbe rivelata una trappola mortale, per una marchetta da 120 euro concordata poco prima con messaggini sul cellulare con Prato. Luca, che era un ragazzo semplice e mite, prostituto occasionale per pagarsi soprattutto il suo vizio del gioco, pensava a una rapida seduta di prostituzione che aveva già sperimentato altre volte. Invece gli altri due, che erano rimasti chiusi nella casa di Foffo per tre giorni, ingurgitando litri e litri di superalcolici e sniffando molte centinaia di euro di cocaina, erano alla ricerca di un partner con il quale sfogare le loro frustrazioni e i loro deliri perversi, e avevano confusamente immaginato di voler violentare un partner casuale.
Nell’incontro fra i tre ragazzi non c’è stata nessuna discussione sul denaro, nessun tentativo di approfittarsi della situazione da parte di Luca Varani, nessun atto di violenza da parte sua. È stato immediatamente stordito con una forte dose di Alcover (la droga dello stupro) mescolata ad un cocktail.
Quindi ciò che rende ancora più terribile il delitto è l’assoluta mancanza di un movente classico. I moventi andavano dunque ricercati nei risvolti psichici dei due assassini e nelle loro vite zeppe di squilibri emotivi e di piccoli fallimenti. Il viaggio che Lagioia ci propone è appunto questo: una ricerca meticolosa, lenta e profonda nella vita e nella psiche dei tre protagonisti, passando attraverso una miriade di carte processuali, verbali di interrogatori, verbali di colloqui carcerari, articoli giornalistici, interviste. Lagioia scava incessantemente nell’ambiente dei tre ragazzi, incontra la maggior parte dei loro amici, ricostruisce il contesto familiare, sociale, urbano e culturale di ciascuno. Sullo sfondo è continuamente evocata la grande madre che accoglie tutto questo, la città di Roma, rappresentata nei suoi feroci contrasti fatti di grande bellezza e di anarchia, corruzione, sfacelo, abbandono. La città dei delitti e dei morti, come il povero Luca Varani, ma anche la città dei vivi, che una volta conosciuta a fondo, non può essere sostituita da nessun’altra, ci suggerisce Lagioia.
Un aspetto che rende questa cronaca-romanzo (o docu-fiction per gli esterofili) interessantissima è anche il coinvolgimento personale, intimo che l’autore ci offre. Lagioia scopre le sue carte più private e racconta le ragioni profonde che lo hanno legato a questo delitto, a partire dai suoi sbandamenti emotivi adolescenziali fino all’oggi. E in questo modo ci mette a disposizione una chiave di lettura che anche noi lettori possiamo utilizzare, confrontandoci con la vicenda, con i diversi personaggi e con quel po’ di abissi che probabilmente tutti custodiamo nel nostro profondo. Potremmo mai essere stati noi Luca Varani? O, domanda ancora più inquietante, avremmo mai potuto fare quello che hanno fatto Mauel Foffo e Marco Prato?
Lagioia non giudica, non dà sentenze e anzi sembra voler suggerire la comprensione e la pietà nei confronti dei tre protagonisti. Li rende umani, con tutte le sfaccettature del reale, con i loro lati positivi e negativi, senza mai giustificare Prato e Foffo per il loro orrendo delitto, che restano due assassini.
A margine vorrei aggiungere una nota sull’omicidio di Luca Varani, confrontandolo con altri omo-cidi, dei quali mi sono occupato in passato.
La grandissima maggioranza degli omicidi maturati intorno a un letto, nel quale si erano trovati due uomini a fare sesso, ha riguardato una vittima gay (spesso segretamente gay), di solito più adulta (se non anziana), più benestante del partner. L’omicida in genere è stato un prostituto occasionale, raccolto per strada, un giovane sbandato, negli ultimi decenni spesso un immigrato povero e irregolare. Un giovane dall’identità sessuale poco consapevole e probabilmente conflittuale. A volte il giovane era anche un ladruncolo, ma il furto non è mai stata la prima ragione del delitto. Erano due mondi lontanissimi che si incontravano e deflagravano: la cultura omofobica riguardava entrambi, da una parte un adulto che aveva una rispettabilità sociale da difendere, dall’altra un giovane che non aveva nulla da perdere ritenendo, per sentire comune, che uccidere un frocio non era poi così grave. Per il giovane più grave sarebbe stato passare da frocio. E lui non voleva sentirsi frocio neanche un po’, tanto da arrivare ad uccidere per negare la realtà di un rapporto nel quale aveva di fatto appena provato piacere. Questo è appunto un omo-cidio.
La situazione a tre Foffo-Prato-Varani è stata molto diversa, anche se resta la distanza sociale ed economica tra le parti (Varani era la parte debole). Ma qui a morire è il più giovane, il prostituto (a mezzo servizio nella realtà). E a uccidere sono i clienti. Finale tragico a parti invertite.
L’omofobia è ben presente anche nel caso che stiamo analizzando. Fortissima in Foffo, che in varie occasioni ha sottolineato che lui non è gay (anche se ha confessato di aver scopato con Prato) e che non sopporta l’idea di essere considerato frocio. Addirittura, sostiene, quel pensiero è più pesante della paura dell’ergastolo. Forte anche in Prato, che è pubblicamente gay, ma nel profondo soffre per la sua condizione che (secondo lui) ha allontanato la madre e rende difficile il rapporto col padre. Ambigua è anche la condizione del più giovane Varani che ci tiene a ribadire che si prostituisce ma è solo e esclusivamente attivo e gli uomini non gli piacciono (salvo continuare a prostituirsi, negando la verità alla fidanzata che glielo chiede espressamente).
Forse (azzardo per sdrammatizzare un po’) la mucca è davvero diventata assassina. La mucca, da sempre sfruttata e alla fine macellata senza pietà, si è ribellata e diventa lei quella che macella gli altri. Appunto la Muccassassina, per citare una famosa festa gay romana che ho contribuito a far nascere. Fuor di metafora in questo delitto il gay rivelato (Prato), insieme al suo complice gay ma non gay (Foffo), uccide il giovane sedicente etero che si prostituisce con loro (Varani), vendicandosi così in modo aberrante, distorto e spaventoso di quella cultura maschilista che lo ha oppresso e reso sofferente da sempre. Peccato che Luca Varani ha dovuto assumere un ruolo non suo (quello dello stronzo etero maschilista e omofobo), diventando l’ignaro rappresentante di quella cultura che Prato, forse, avrebbe voluto cancellare.