Pubblichiamo di seguito il testo integrale del saggio-introduzione, che il direttore di Gaynews.it, Franco Grillini, ha scritto al libro di Marco Fraquelli A destra di Sodoma (Oaks, Sesto San Giovanni 2021, pp. 300, € 28,00), nuova edizione, ampliata e aggiornata, di Omosessuali di destra del 2007.
In Italia i rapporti tra la collettività Lgbt e la Destra politica sono sempre stati fortemente conflittuali, per non dire assolutamente burrascosi. Sulla soglia dei quarant’anni di attivismo Lgbt posso dire che non è passato giorno in cui non si sollevasse una polemica, praticamente riguardo a tutto lo scibile umano. L’elenco sarebbe interminabile; e per questo mi limiterò, a cornice della nuova edizione del libro di Fraquelli che ho avuto il piacere di presentare a suo tempo a Milano, alla cronaca di alcuni fatti storici che testimoniano ancor di più le contraddizioni che l’Autore mette in evidenza in queste pagine, contraddizioni che nascono soprattutto dalla «costituzionale» cultura omofobica della Destra.
Tre fatti, accaduti nel corso degli anni, sono a mio parere esemplari. Comincerei dalla polemica sulle «case ai gay» del 1992, quando presentando il bando regionale dell’Emilia-Romagna per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, aperto anche alle coppie di fatto, e rispondendo alla domanda di una giornalista, l’assessore Claudio Sassi disse con sicurezza che anche i conviventi omosessuali in possesso dei requisiti previsti dalla normativa sarebbero potuti accedere al bando. Apriti cielo! La discussione durò settimane sulla stampa nazionale e nelle tv.
Sull’«Espresso», il ciarliero cardinale Oddi disse che era sbagliato dare le case alle coppie gay perché in questo modo si riconosceva una forma familiare concorrente alla famiglia tradizionale. Ma allora i gay non hanno diritto alla casa?, lo incalzava l’intervistatore. «Certo» era la replica dell’ineffabile Oddi «ma una a testa».
L’episodio più eclatante fu però nei primissimi anni ’90 quando, durante la trasmissione di Giuliano Ferrara L’Istruttoria, in cui il sottoscritto polemizzava con un giovane (allora) Pier Ferdinando Casini, il comitato centrale del Msi, capeggiato da Gianfranco Fini, collegato in diretta, urlò in coro, rivolto a me, «frocio frocio» (il video è tuttora reperibile su Youtube). In quei giorni c’era stata pure la piazzata di Cl con Roberto Formigoni, alias «il Celeste», futuro governatore della Lombardia, che con un sit-in sotto la sede della Regione Emilia-Romagna aveva protestato contro una delibera che osava utilizzare la parola famiglia declinata al plurale: «famiglie».
Qualche anno prima era esplosa l’epidemia di Aids. Allora, i ministri democristiani ne avevano dette di tutti i colori, prima con il veneto Costante Degan, Ministro della Sanità («l’Aids non è un problema per l’Italia»), poi con il sanguigno Carlo Donat Cattin, passato alla storia per aver detto che «l’Aids se la prende chi se la va a cercare». Ma è la Destra – Msi prima e An poi – che ha sempre gettato più benzina sul fuoco dell’omofobia.
Nel ’97 ero in prima fila al Teatro Parioli, ospite del Costanzo Show. Alla mia destra avevo un giovanissimo Enrico Letta e alla mia sinistra il leader dell’Udc al senato D’Onofrio. Sul palco c’era Gianfranco Fini, al quale rivolsi la seguente domanda: «Avete chiesto scusa per le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei, non è il caso di chiedere scusa anche agli omosessuali per le persecuzioni del regime fascista?». Anziché rispondere nel merito, Fini – l’episodio è ricordato anche da Fraquelli – se la prese coi «maestri gay» provocando, anche in questo caso, una polemica mediatica che durò mesi.
Ciliegina sulla torta fu l’allora moglie di Fini, Daniela Di Sotto, che entrò a gamba tesa in partita con l’affermazione che un omosessuale non poteva essere un giocatore di calcio.
La signora, fanatica laziale, faceva finta di non sapere quello che sapevano tutti i giornalisti sportivi, e cioè che alcuni dei grandi campioni di quel tempo erano (come minimo) molto chiacchierati; e questo mi diede modo di dichiarare pubblicamente che senza gli omosessuali il campionato sarebbe stato impossibile.
Come ricorda Fraquelli, i capisaldi della politica della Destra in Italia ma non solo sono da sempre il tradizionalismo familista e il maschilismo declinato in tutte le sue forme. Infatti la polemica sulle case ai gay era incentrata essenzialmente sull’idea che non ci dovesse essere nessun riconoscimento delle altre forme familiari. Nel 2019, con il Congresso sulla famiglia di Verona, questa ideologia discriminatoria spacciata per «naturale» ha avuto il suo acme politico-istituzionale. Questo modo di pensare si scontra però con una realtà che si incarica, il più delle volte, di smentire le ideologie costruite a tavolino: le forme familiari evolvono e cambiano (a volte anche in modo radicale) a passo con la storia e l’economia.
È falsa, innanzitutto, l’affermazione che l’attuale famiglia sia sempre esistita e sempre esisterà: la famiglia dell’Atene di Pericle, basata sulla reclusione della donna in ambito domestico, è molto diversa dalla famiglia romana basata sulla «gens» e sulle clientele, a propria volta molto diversa da quella feudale contadina basata sul predominio patriarcale. Ancora diversa è la famiglia nucleare legata alla nascente borghesia e al sistema economico tayloristico-fordistico, per il quale doveva servire come riproduttrice di forza lavoro.
Oggi quel sistema è molto cambiato; la produzione industriale si basa essenzialmente sull’elettronica e la meccatronica con figure professionali nemmeno immaginabili nell’Ottocento. Il settore dei servizi e del terziario è sempre più rilevante e i «lavoratori autonomi» a partita Iva sempre più numerosi. Ci si può immaginare una famiglia eterosessuale con matrimonio indissolubile legata alla fabbrica fordista che non c’è più? Solo un gruppo di nostalgici e di politici intellettualmente disonesti può pensarlo e, peggio ancora, dire che quella è l’unica famiglia degna di tutela.
I dati statistici sono impietosi al riguardo: in Paesi come la Danimarca non più del 20 percento della popolazione vive in una famiglia tradizionale. In Italia il dato è attorno al 35/40 percento. È ovvio che i processi di precarizzazione economico-produttiva, indotti come sono da un’economia sempre più in rapida trasformazione, richiedano una mobilità sul territorio che precarizza anche i nuclei familiari. Come è altrettanto evidente che il crollo della natalità e del numero dei matrimoni dipende dall’incertezza economica di un mondo produttivo sempre più basato sulla finanza e su di una globalizzazione che premia il basso costo del lavoro.
Riconoscere tutte le nuove famiglie è un dovere dello Stato – le politiche familiste, oltretutto, escludono la maggioranza della società dalla tutela del Welfare – e, direi, anche una necessità del sistema produttivo. La Destra quindi non fa i conti con la realtà. Anzi, a quanto pare anche il nucleo sovranista in gestazione al Parlamento europeo mentre scrivo queste note si basa proprio su una «carta dei valori» che mette al centro l’odio verso gli omosessuali, i diritti delle donne e il familismo tradizionalista. C’è bisogno di ricordare che i governi a trazione sovranista dell’Ungheria e della Polonia hanno varato controriforme sull’aborto e sui diritti delle famiglie omogenitoriali?
A proposito di omogenitori, la polemica è sempre allo zenit. Qualche anno fa, per la Destra l’omosessualità era contro natura perché ritenuta non riproduttiva. Oggi non passa giorno senza che un Salvini e una Meloni ci dicano che mai e poi mai un omosessuale deve essere un genitore, anche se a smentirli c’è la realtà delle famiglie arcobaleno e delle migliaia dei loro figli e figlie che crescono benissimo.
A proposito: è bene ricordare che questa propaganda familista ha fatto sì che nella legge sulle Unioni Civili, approvata definitivamente l’11 maggio 2016, si definisce in modo piuttosto ridicolo quella omosessuale come «formazione sociale specifica». I cattolici del Centrosinistra di allora, infatti, imposero questa formulazione per evitare a ogni costo la sacrosanta equiparazione della famiglia omosessuale alla famiglia tout court. La ragione è evidente. Nel tradizionalismo familista, il nucleo composto «da un uomo e da una donna» legati dal vincolo matrimoniale deve riprodurre quei ruoli sociali a cui il pregiudizio misogino inchioda donne e bambini da secoli. Nella mia esperienza istituzionale mi è capitato spesso di contestare questo modo di pensare e di essere accusato di voler cancellare le «differenze» uomo-donna. Ed è la polemica al centro della cosiddetta «teoria gender», di cui gli omosessuali sarebbero i principali portatori attraverso l’imposizione di un «pensiero unico» e la «dittatura del politicamente corretto».
Una invenzione politico-mediatica che ricorda fin troppo da vicino il complottismo di origine fascista a proposito di intrighi «demo-pluto-giudaico-massonici» di mussoliniana memoria. La Destra, nella sua propaganda, ha sempre bisogno di nemici (veri o presunti non importa) da indicare al pubblico ludibrio; e da questo punto di vista gli omosessuali e altre minoranze funzionano mirabilmente come nemici del popolo, distruttori della società e traditori del proprio genere.
L’ipocrisia, come ben dimostra questo libro, condisce poi tutto in modo perfetto. Gli esempi portati da Fraquelli sono emblematici. Uno fra tutti: la vicenda di József Szájer, numero due del partito Fidesz di Victor Orbán, l’autocrate dell’Ungheria, e uno degli autori della riforma costituzionale che esclude le famiglie LGgbt dalla tutela giuridica. Il fermo immagine di questo personaggio è il fotogramma della sua fuga seminudo, attaccato a una grondaia di Bruxelles con le mani sanguinanti, da una festa a base di stupefacenti con ben venticinque uomini. Il campione della famiglia tradizionale beccato dentro un’orgia fra maschi a base di chemsex.
Casi di questo tipo sono molto frequenti soprattutto in campo religioso, dove l’illusione del controllo della sessualità si vanifica quotidianamente alla luce di scandali che non sono più celabili come la sporcizia sotto il tappeto. Perché uno di Destra o un cardinale si fanno «pizzicare» a fare esattamente il contrario di quello che dicono, e soprattutto propongono, predicano o pretendono di imporre agli altri? La risposta è abbastanza semplice: il potere val bene una messa, come disse Enrico IV di Francia.
Ma poi la contraddizione inevitabilmente emerge, perché la sessualità non è sopprimibile ed è tendenzialmente anarchica (il famoso «perverso polimorfo» di Sigmund Freud), checché ne dicano coloro che ci vorrebbero imporre moralismo e sessuofobia.
Infine, il tratto caratterizzante della «cultura» di Destra è il maschilismo. Il suprematismo maschile in primo luogo come strumento di potere e di predominio sulla società e sulla famiglia di tipo patriarcale. L’argomento è di difficile trattazione nella politica, anche a Sinistra. Mi risulta che soltanto il leader spagnolo Zapatero abbia inserito la lotta al maschilismo addirittura come secondo punto del suo programma di governo in occasione del suo secondo mandato. In Italia se ne parla, quando se ne parla, soprattutto in termini culturali, ma difficilmente troveremo azioni di contrasto al machismo nei programmi scolastici o, meno ancora, in quelli dei partiti politici.
Il maschilismo sta alla base della costruzione dei ruoli sociali e delle identità di genere fin dall’infanzia. La riflessione al riguardo trova il suo punto di riferimento, tutt’ora pienamente valido, nel bel libro di Elena Giannini Belotti, Dalla parte delle bambine, dove l’analisi del ruolo sociale del patriarcato e del maschilismo parte appunto dall’infanzia se non addirittura dal ventre materno, visto che oggi, con la moderna diagnostica, si può conoscere prestissimo il sesso del nascituro. Fiocco azzurro per i maschi, rosa per le femmine. Poi giochi separati come le mille volte citate pistole per i maschietti e bambole per le femminucce. Vale la pena citare la recente polemica Fedez-Pillon proprio su questo.
Nel corso della storia gli omosessuali hanno pagato molto caro il conflitto ruolistico nella dinamica della famiglia eterosessuale. Per un lungo periodo (si parla di secoli!) volendo costringere l’omosessualità maschile e femminile nelle sole categorie dettate dai ruoli sociali, estesi per l’occasione anche a quelli sessuali, la donna lesbica era considerata un maschio mancato e, analogamente, il maschio gay una donna mancata. Il potere, maschile per definizione, in tutte le sue forme (da quella vaticana a quella politica vera e propria) era preoccupato essenzialmente di reprimere l’omosessualità maschile considerata una minaccia al potere stesso e alla stabilità sociale. Di solito, infatti, le leggi repressive ignoravano – lo ricorda anche Marco Fraquelli – l’omosessualità femminile, per lo più negata o ritenuta irrilevante. Si veda ad esempio il bel libro di Romano Canosa sull’omosessualità a Firenze e a Venezia nel ‘400, dove si parla di decine e decine di migliaia di processi per sodomia: tutti al maschile.
Le cose non cambiano nei secoli successivi. L’omosessualità maschile viene ritenuta una sorta di tradimento del branco, del proprio ruolo, del destino di riproduttore e di pater familias. Fanno eccezione i casi ben descritti da Fraquelli di omosessuali di Destra che vedono nell’omoerotismo maschile un’occasione di ipervirilismo, non a smentita, tuttavia, bensì a conferma proprio del ruolo sociale di predominio del maschile sul mondo.
Tutto ciò è abbondantemente confermato anche dai recenti dibattiti sulle poche leggi a garanzia dei diritti civili delle persone Lgbt che riescono ad arrivare in discussione nel Parlamento italiano, da sempre particolarmente refrattario ad allinearsi ai livelli europei in relazione alle garanzie sui diritti individuali di libertà. Si pensi ad esempio al dibattito sulla proposta di legge contro l’omotransfobia che dura in Italia da ben ventotto anni (la legge cosiddetta Mancino, dal nome del Ministro degli Interni del governo Ciampi, è del 1993 e riformava la Legge Reale del 1975). I vari tentativi di vararla in Parlamento hanno visto argomenti di contrasto da Destra piuttosto mutevoli di volta in volta.
Nel 2007-2008, contro la proposta di cui ero primo firmatario, si è usato soprattutto l’argomento negazionista: non esiste una emergenza omofoba in Italia. Successivamente, contro la proposta di aggravante (che adesso la Lega sarebbe disponibile a discutere) portata avanti da Paola Concia, si è detto che non ci poteva essere alcuna differenza tra fatti di violenza etero o antigay che fossero. Poi contro la proposta Scalfarotto la polemica si è incentrata sulla «teoria gender», una idea bislacca di complotto LGBT mondiale per imporre il «pensiero unico Lgbt», invadere le scuole, indottrinare i giovani e mettere in discussione le fondamenta della società.
Al momento in cui scrivo queste note la proposta è in discussione in Senato dopo la sua faticosa approvazione alla Camera. La Legge Zan cita esplicitamente la misoginia come crimine d’odio ed è la prima volta che accade in una legge italiana. Nonostante si registri una ampia maggioranza a favore della legge stessa (anche nell’opinione pubblica: al momento sono già state raccolte cinquecentomila firme a sostegno), c’è un’opposizione ostruzionistica basata, stavolta, su una presunta limitazione delle libertà di espressione e su una sequela di fake news sulle apocalittiche conseguenze in caso di approvazione.
Non è questa premessa il luogo per una disamina dettagliata della legge stessa. Ma vorrei rimarcare che anche in questo dibattito il machismo della Destra italiana domina su tutta la polemica. Che è alimentata anche dalla questione «identità di genere» che definisce la tutela delle persone transgender e che è fieramente avversata anche da sparuti gruppi del femminismo separatista i quali, curiosamente, usano lo stesso linguaggio della Destra.
A ciò si aggiunge la discussione sulla «fluidità» della sessualità umana e dei generi. In un convegno mondiale dell’Oms ne sono stati classificati cinque. Facebook arriva a cinquantadue. E in una vasta ricerca inglese, su decine di migliaia di giovani ben il 70 percento ha dichiarato di non volersi definire in relazione al proprio orientamento sessuale. La Destra maschilista vorrebbe pateticamente fare argine a tutto ciò. Ma la rivoluzione tecnologica sta trasformando radicalmente e irreversibilmente economia, cultura e società. E soprattutto le relazioni tra le persone e il loro modo di definirsi e di percepirsi. Una parte della Destra europea l’ha capito, quella italiana per niente; e assomiglia a quei soldati giapponesi rimasti per decenni a combattere nella giungla perché si rifiutavano di credere che la seconda guerra mondiale fosse finita.
Uno slogan efficace dei Pride dice «we are everywhere». Le persone Lgbt sono ovunque, quindi anche a Destra. La speranza – magari grazie anche alla lettura di A destra di Sodoma – è che si riesca finalmente a convincere quella parte politica che è ora di accettare l’omosessualità come «caratteristica della personalità» e «variante del comportamento umano» (definizioni dell’Oms), chiudendo secoli di persecuzioni a difesa di un maschilismo che non ha più senso.
Dopotutto anche Onoda Hiroo, l’ultimo «soldato fantasma» giapponese, dopo trent’anni di guerra solitaria sull’isola filippina di Lubang ha dovuto arrendersi alla realtà.