Il linguaggio informatico, quello con il quale si forniscono istruzioni ai computer, si basa su due soli simboli, zero e uno. Acceso e spento, aperto e chiuso. Pensate con solo due cifre cosa si può chiedere a un computer. E pensate però anche quanta noia può esserci in quelle uniche due cifre. Per fortuna il mondo reale è più complesso. Tra lo zero e l’uno c’è una infinita possibilità di scelta, dentro alla quale ci sono sogni, aspirazioni, ideali tanto quanto paure, insicurezze, contraddizioni. Tutto quello che a un computer non si può chiedere.
Eppure, la tentazione di semplificare è tanta, anche nel mondo reale. Il controllo sociale sarebbe molto più facile se si potessero determinare le persone come automi e riportare l’intera società a poche grandi categorie dentro cui semplificare tutto quello che semplice non è: giusto e sbagliato, naturale e innaturale, bianco e nero. A ben vedere, questa è da sempre l’aspirazione sociale e politica del conservatorismo di destra. Ammettiamolo, per il potere e per l’ordine costituito era tutto più semplice quando “la terra era piatta”. È da qui che faccio partire la recensione di questo libro, dalla gioia di constatare che il mondo è andato avanti e la realtà va oltre le categorizzazioni binarie. Persino quella che il potere, da sempre, ci impone come la più naturale del mondo, in quanto tale impossibile da modificare o mettere in discussione: uomo e donna.
La terra non è piatta è un libro che mette insieme più voci, diverse per età, stili e percorsi di vita, ma con alcuni tratti comuni, a partire dall’approccio intersezionale, la critica al patriarcato e l’esperienza pratica e teorica nel mondo transfemminista e Lgbt+. Il tutto condito da una giustificata insofferenza verso ogni tentativo di rinaturalizzazione dei generi e da quel pizzico di amore per la polemica che, a tratti, fa diventare il testo una sorta di pamphlet contro le teorie “terrapiattiste” del femminismo transescludente, le cosiddette Terf, convintamente aggrappate alla difesa della differenza sessuale, idolatrata e reificata, totem immutabile, appunto perché concepita come “naturale”, alla stregua dei più accaniti difensori dell’ordine patriarcale.
Il testo fa chiarezza su molte cose, smontando una serie di convinzioni e alcune falsità sul concetto di identità di genere, purtroppo amplificate dal megafono dei media mainstream, appannaggio della destra da un lato e di un ristretto numero di donne, dall’altro. Un megafono in grado di distorcere ad arte la realtà, cancellando il protagonismo del movimento femminista che in questi anni ha riempito le piazze e trasformandolo piuttosto, insieme al mondo transgender, nel principale bersaglio di una polemica feroce, veicolata “a sinistra” da Arcilesbica, Libreria delle Donne, femminismo della differenza.
Le autrici offrono una serie di argomentazioni teoriche, utili a orientarsi in questa discussione, a volte un po’ farneticante e mai facile, soprattutto ora che ricade sull’iter del ddl Zan. Spiegano cosa è l’identità di genere e come si articola nella differenza con il sesso: quest’ultimo è un fatto anatomico, più o meno naturale e dettato dal destino, l’altro è un fatto sociale, determinato dalla cultura e dalla società.
Da qui, smontano pezzo a pezzo la pretesa di escludere le donne trans invece che accoglierle come sorelle, vittime anche loro, persino più esposte, dello stesso sistema patriarcale che opprime le donne. Una pretesa incomprensibile da parte di alcune femministe, che, arroccate a difesa della propria identità, collocano le donne trans nel sistema di privilegio maschile, trattandole come «maschi travestiti da donne» per derubare le «donne vere» di spazi e diritti.
Spiegano la natura identitaria e conservatrice di questo femminismo, che, partendo dalla assimilazione tra sesso e genere e in particolare dalla difesa della differenza tra uomini e donne come dato biologico e immodificabile, finisce per imporre stereotipi altrettanto dogmatici e feroci di quelli della destra reazionaria e conservatrice.
Chiariscono anche quanta meschinità ci sia nella raffica di negazioni che si scatenano intorno a questo presunto determinismo biologico dell’identità di genere, a partire dalla granitica certezza di chi pretende di parlare al posto delle dirette interessate, come se l’autodeterminazione fosse appannaggio solo di alcune e non di tutte. Ricordano, infine, cosa utile anche fuori dal femminismo, quanto le logiche identitarie e i comportamenti settari finiscano per diventare patologia politica, dove il nemico è irrimedibilmente quello che ti è più vicino.
Insomma, un libro utile a chi voglia capire cosa è accaduto nel femminismo e nel movimento lesbico degli ultimi 50 anni e come si sia potuto arrivare al fatto che una sua parte finisse per assumere logiche identitarie ed escludenti, incredibilmente convergenti con la bieca propaganda di quei settori reazionari e omofobici che da sempre, ahimè, infestano questo paese. Un testo utile anche a capire, dall’altro canto, cosa significa, dal punto di vista teorico e pratico, l’assunzione da parte di Nudm del concetto di intersezionalità e l’apertura al transfemminismo.
Avrete capito che, tra queste pagine, non si fanno sconti. Va detto, sempre con garbo e soprattutto argomentando ogni considerazione su basi storiche e teoriche. Ciononostante, più di qualcuna si sentirà criticata e messa in discussione. Spero io stessa di non finire nel tritacarne di qualche «femminista transescludente» per aver scritto questa recensione. Il mio intento non è certo di offendere nessuna e ammetto di essermi chiesta se non fosse il caso di lasciare comunque perdere. Da sindacalista, in fondo, almeno questo potrei evitarmelo.
Se non fosse che quella parte di femminismo transescludente e dogmatico irrompe anche dentro la discussione sindacale, più o meno sottobanco. Lo fa con la stessa modalità che usa altrove: approfittare di ruoli consolidati di potere per parlare per tutte le altre e imporre nei documenti ufficiali la propria visione, citando esplicitamente la «cultura della differenza», benché mai discussa e lontana anni luce dalla pratica quotidiana di tantissime compagne. Soprattutto, va detto, nella mia categoria, la Fiom, un tempo molto più aperta al movimento, oggi invece arroccata a sua difesa su queste posizioni, frutto di discussioni di almeno quaranta anni fa.
Su questo, io ho una sola granitica convinzione, come donna e femminista: odio il patriarcato. Lo odio in ogni sua forma. Quando è contro di me perché sono nata donna, ma anche quando è contro chiunque non si riconosca per orientamento sessuale o per identità di genere nel mondo meschino e bigotto che vorrebbe imporci. Le persone trans sono mie alleate, perché combattiamo un’unica battaglia. Per questo, mi trovo completamente a mio agio nel concetto di transfemminismo, inteso come l’apertura del femminismo a tutti i generi che sono oppressi dal patriarcato. E tanto più ne sono convinta, tanto più altre vogliono escludere dal movimento le soggettività Lgbt+. Non riesco davvero a concepire perché dovrei sentirmi privata di qualche diritto se altre ne conquistano per loro.
Aggiungo che il termine che dà forma al femminismo di cui ho fatto esperienza non è «differenza» ma «intersezionalità». Ho passato una vita intera, come tante di noi, a ribellarmi al fatto che un dato biologico (cioè l’essere donna, avere un utero e una vagina) determinasse come dovevo essere e cosa dovevo fare. Trovo incredibile arrivare a sventolare proprio quel dato biologico per «difendere il femminismo dalle persone trans».
Diversamente da quanto fanno altre, non pretendo di parlare per tutte le femministe. Mi limito a dire che il mio femminismo non è fatto di zero e uno, non è escludente, non è giudicante né moralista, ma gioioso e accogliente verso altre donne e persone trans con storie, percorsi e identità di genere diverse dalle mie. Insomma, per me la terra non è piatta, le identità di genere non sono sole due, il determinismo biologico e cosa di altri tempi. La realtà, per fortuna, è andata avanti. Chi vive di uno e di zero, se ne faccia una ragione. Le altre, si gustino questo bel libro!