Esattamente due anni fa il Parlamento, dopo decenni di battaglie politiche, approvava la legge sulle unioni civili. Le aspettative su questa legge erano fortissime: va da sé che tutti noi avremmo preferito che anche l’Italia, sulla scia di tutti i Paesi della vecchia Europa, si approvasse una legge sul matrimonio egualitario. Che fosse, perciò, in grado di superare definitivamente la divisione in cittadini di serie A e B.
La legge sulle unioni civili, quindi, non è certamente una legge perfetta e, questo, soprattutto per due motivi. Il primo è di principio: era ed è inaccettabile la definizione di coppie di persone dello stesso sesso come “formazione sociale specifica” che, voluta da Alfano e dai centristi nonché dall’area cattodem del Pd, è stata scelta per affermare il concetto, del tutto irricevibile, che quella omosessuale non è una famiglia come le altre. Il secondo motivo è di principio e di sostanza: la legge non riconosce i figli delle coppie omosessuali. Basti ricordar la ben nota vicenda dell’articolo 5 sulla stepchild adoption che venne stralciato subito prima del voto di fiducia in Parlamento.
Va detto, per altro, che proprio la richiesta del voto di fiducia rappresenta una pagina molto positiva nella storia del governo di centrosinistra: un’azione di coraggio il cui valore storico è, a mio parere, innegabile.
Nonostante questi limiti la legge è stata utilizzata finora (al 31 dicembre 2017) da più di 12mila persone come ci dicono i dati pubblicati in anteprima da Huffington Post. La crescita esponenziale delle celebrazioni delle unioni civili delle coppie di persone dello stesso sesso è aumentata del 149,5% nel 2017 rispetto al 2016. Il che ci permette di fare un’agevole previsione sull’intero 2018: raggiungere 10mila unioni civili entro la fine dell’anno in corso.
A queste vanno aggiunte le celebrazioni all’estero che, trascritte in Italia, sono circa un migliaio. Come ha sottolineato Marzio Barbagli, uno dei più importanti analisti della famiglia in Italia, la percentuale di celebrazioni di unioni civili in rapporto con i matrimoni tra persone di sesso opposto è tra le più alte d’Europa. Possiamo dunque parlare, a ragion veduta, di grande successo della legge sulle unioni civili in barba alle giaculatorie trasversali di media che hanno parlato di flop.
La legge Cirinnà è stata, invece, un grandissimo successo al punto che anche io stesso ho fatto il celebrante, su delega del sindaco di Bologna Virginio Merola, in diverse unioni civili e lo farò ancora in tante altre nel corso dell’anno. A tutte le persone legittimamente dubbiose in ambito Lgbti dico che, nonostante tutto, la legge sulle unioni civili è stata e resta una grande vittoria e come tale va celebrata anche tenendo conto delle numerose cerimonie.
Buona parte delle celebrazioni riguarda persone non più giovanissime: il che significa che la legge ha una fortissima “utilità” nel sistemare questioni proprie della vita a due come, ad esempio, quelle riguardanti il piano patrimoniale e assistenziale. Ci sono state, certo, anche molte celebrazioni tra coppie giovani, soprattutto tra donne.
Ciò che rende estremamente interessanti i dati sulle unioni civili è la loro ripartizione territoriale con l’indiscusso primato della capitale con 845 celebrazioni (vale la pena ricordare che la prima è stata celebrata dalla sindaca Virginia Raggi). In seconda battuta troviamo Milano con 799, terza Torino con 378 e, quindi, Bologna con 219. Va sottolineato che, in alcuni casi, come quello di Milano, il numero delle unioni civili si avvicina a quello dei matrimoni non religiosi.
Questo cambiamento, unito alle numerose sentenze di tribunale che riconoscono l’omogenitorialità e la registrazione anagrafica dei bambini quali figli di due papà o due mamme (un elenco, quest’ultimo, che con Torino e Bologna si va allungando di giorno in giorno) ha ridefinito finalmente sul piano sia giuridico sia sociale l’idea stessa di famiglia che non può più essere pronunciata al singolare ma con il termine plurale e inclusivo di “famiglie”.
La pretesa da parte di quel fascioleghismo, che nega i patrocini ai Pride nei numerosi Comuni e Regioni laddove ha vinto le elezioni, di definire un unico modello familiare, vale a dire quello di una famiglia eterosessuale, è infatti ormai del tutto anacronistica di fronte all’esistenza di pluralità di forme familiari che lo stesso diritto riconosce. Si tratta non più di una scelta come le altre ma di una necessità. Cosa ben comprensibile alla luce della drammatica frantumazione del corpo sociale provocata da politiche economiche liberiste, che hanno precarizzato la quotidianità e il lavoro rendendo indispensabile ripensare le rigidità di un diritto di famiglia oramai inadeguato a riconoscere tutte le nuove forma di vita familiare.
Mi piace ricordare due concetti che sono e restano i cardini di altrettante battaglie culturali fondamentali. Quello di “parentalità affettiva”, che ricorda la necessità di dare valore, in un mondo fatto di solitudini, alle relazioni anche tra persone non legate da ius sanguinis. Quello di “democrazia domestica”, alla cui luce ognuno paritariamente partecipa alla vita quotidiana della propria casa (ogni giorno le donne nelle coppie etero lavorano ancora mediamente cinque ore in più degli uomini).
Parentalità affettiva, democrazia domestica, libertà nelle relazioni, famiglie plurali, omogenitorialità sono tasselli importanti di una nuova idea di società. A due anni dall’approvazione della legge Cirinnà è ora di ripensare l’intero diritto di famiglia.