Le parole sono pietre, come si è soliti dire, e, anche quando lanciate virtualmente sui social mediatico, possono far male ugualmente. Anzi, possono fare ancora più male, perché capaci di essere percepite da un pubblico più vasto.
Che si tratti di omofobia, di razzismo o di “semplice” rancore sociale, quella dell’odio on line sta diventando una piaga tale da intossicare le relazioni, le vite e perfino i rapporti istituzionali.
Ne sa qualcosa Francesco Spano, ex direttore dell’Unar, che mai avrebbe pensato, al momento in cui provò ad organizzare presso l’ufficio di Palazzo Chigi un focal point sull’hate speech, di diventare lui stesso uno dei bersagli più colpiti dalla violenza della rete.
L’episodio è ben noto al pubblico. A seguito di un servizio de Le Iene Spano fu accusato da alcuni media di aver dato fondi pubblici a una associazione Lgbti che –secondo il programma Mediaset – “favoriva la prostituzione omosessuale”.
Trascinato, suo malgrado, in quello che taluni hanno ritenuto essere un regolamento di conti tra associazioni, Spano decise di dimettersi, pur ribadendo costantemente la correttezza del proprio operato.
Correttezza confermata dalla Corte dei Conti, che ha ritenuto doveroso registrare il bando pubblico attenzionato (e di cui l’Unar era soltanto l’amministrazione procedente). Correttezza soprattutto confermata dalla totale assenza di qualunque responsabilità dell’allora direttore dell’Unar in tale questione ed emersa dalle inchieste avviate all’indomani del servizio, che di fatto hanno scagionato Spano da ogni illazione e accusa.
Ma tutto ciò non è bastato a rasserenare l’indignazione degli odiatori seriali che, dalla sera stessa della messa in onda del programma, hanno rovesciato contro Spano e la sua famiglia ogni sorta di insulto, probabilmente confidando nell’immunità garantita loro dalla rete. Forse pensando che il diritto sia sempre fermo e immutabile. Ma erroneamente.
Se ne sono accorti quelli che Spano ha deciso di querelare e che, in questi giorni, si sono visti notificare i decreti di rinvio a giudizio per diffamazione aggravata.
«Non è una soddisfazione – dichiara a Gaynews l’ex direttore dell’Unar – perché, ogni qual volta si debba ricorrere ai tribunali per riaffermare rispetto e civiltà, è sempre una sconfitta per tutti noi. Era però necessario farlo, per riaffermare il principio che le parole hanno un loro peso e che le persone, tutte le persone, hanno una loro dignità e una sensibilità, che lo Stato deve tutelare e proteggere sempre».
Da Trieste a Palermo, passando per Grosseto e per Roma, sono molte le Procure che, negli ultimi mesi, hanno aperto un nuovo corso, riscontrando nelle frasi incriminate la presunzione di un reato e consegnando i loro autori al giudizio di un tribunale penale.
«Le indagini sono state lunghe ed articolate – ci spiega l’avvocato Marco Carnabuci che assiste Spano –, perché sono le prime volte che si procede a una incriminazione dei presunti responsabili di un reato commesso tramite social network, superando gli ostacoli di identificazione posti in essere dalle disposizioni nazionali e straniere che disciplinano il funzionamento dei social».
Un passo innovativo, insomma, con cui la magistratura si avvia a colmare una lacuna pericolosa, in attesa che il legislatore faccia la sua parte. Un’occasione importante per ricordarci tutti il peso e la responsabilità del linguaggio e, soprattutto, che l’odio, anche quando espresso in modo virtuale, può far male concretamente.