Con Gigliola Toniollo, don Luigi Ciotti, Giovanni Anversa, la Comunità San Benedetto (in memoriam di Don Andrea Gallo), Alba Parietti, Paolo Patanè, Paolo Valerio, Margherita Mazzanti, Antonio Nigrelli è stata premiata, il 13 ottobre 2017, a Milano in riconoscimento del suo impegno contro ogni forma di discriminazione e, particolarmente, contro l’intolleranza transfobica.
Si tratta di Carmen Bertolazzi. Classe 1951, la giornalista e attivista d’origine altoatesina è presidente dell’associazione Ora d’Aria, impegnata nella difesa dei diritti delle persone transessuali/transgender detenute, vittime di tratta e in stato di vulnerabilità. Con una passione nel cuore: l’Etiopia.
L’abbiamo raggiunta per saperne qualcosa di più della sua attività
Carmen, da dove nasce quest’interesse per l’Etiopia?
L’Etiopia è una mia seconda vita o una vita parallela. Oltre ad essere la presidente dell’associazione Ora d’Aria, lo sono anche di IISMAS, una ong costituita da volontari e fondata da Aldo Morrone, grande esperto in dermatologia e malattie tropicali, ma soprattutto impegnato da sempre a curare gli ultimi, sia che si tratti di persone di altri mondi, o detenute, o trans. Andare in Africa serve a capire il mondo e a dare un senso alle cose che nelle nostre realtà garantite si rischia di smarrire. Si abbandonano i particolari e si lavora sull’essenza, ossia la vita e la sua qualità. Che nel sud del mondo difetta.
Etiopia: Paese di migrazione e di passaggio di migranti provenienti. Quale è la situazione attuale, tenuto conto di quanto accade in Europa?
L’Etiopia confina con la Somalia, l’Eritrea, il Sudan e il Sud Sudan, tutti paesi di partenza dei migranti. Al suo interno milioni di profughi, tutti con l’obiettivo di arrivare in Europa, se non negli Stati Uniti o in Canada. In Etiopia opero in una zona vicino al confine nord-ovest, in cui si trovano numerosi campi profughi per gli eritrei. Ormai tutti lo sanno, che è inutile incamminarsi verso la Libia, che l’Italia ha chiuso i porti. I campi profughi straboccano, qualcuno si sposta in altri paesi africani e si cerca una nuova rotta. Molti comunque si incamminano verso la Libia, non sapendo cosa li aspetta, e rischiando la sorte.
Da tempo Cei, Chiesa Valdese e Comunità di Sant’Egidio riescono a far arrivare profughi particolarmente vulnerabili attraverso i corridoi umanitari (malati, famiglie, minori che arrivano con l’aereo e un visto) e questa è la strada giusta. In attesa, ma non sono i tempi giusti e quando forse potevano esserlo non è stato fatto per calcoli politici, si dovrebbero portare qui tutte le donne, perché non è ammissibile che subiscano stupri, e gravidanze. Sarebbe una discriminazione, ma una discriminazione necessaria.
Sulla base della sua esperienza quali sono le condizioni delle persone Lgbti in Etiopia?
In Africa l’omosessualità non è solo negata, ma soprattutto perseguitata e condannata anche con la pena di morte. Ci sono rare eccezioni, quali il Sudafrica e il Mozambico (un suo ex presidente Joachin Chissano fu investito di occuparsi del tema per il continente, ma non credo che l’incarico abbia prodotto miglioramenti). A proposito di questo paese mi ricordo di quando fui invitata a un matrimonio fra una donna protestante e un uomo mussulmano. Lei lasciò la sua chiesa e si convertì. Mi preparai diligentemente alla cerimonia con abiti accollati e veli. Poi andammo al pranzo nunziale con tanto di spettacolo. E chi aprì lo show? Un gruppo di ragazze trans arrivate appositamente dal Sudafrica e che stavano partecipando in tv a un talent-show. I più entusiasti? I parenti dello sposo. Come si vede, le cosiddette barriere sono solo culturali e sociali, altro che religiose.
In Etiopia, se si parla di omosessualità anche in ambiti scientifici, i partecipanti locali si alzano e dicono: Ah, da noi non c’è questo problema, roba da bianchi. Una volta in una cittadina al confine con il Sudan chiesi una camera con due letti per due dottoresse che avevano qualche timore e che volevano stare insieme. Niente da fare. Prenotai due camere separate e poi si arrangiarono. Due donne o due uomini nella stessa stanza, se non parenti, non è ammesso. Tre sì. Ovviamente le persone omosessuali esistono ma non hanno vita facile. Questo spiega anche perché tra i richiedenti asilo ora si presentino molti giovani, che arrivano dai diversi paesi africani e chiedono protezione causa la discriminazione e i rischi che corrono nel loro paese.
Sembrerebbe che nei servizi sanitari etiopi ci siano stati dei progressi circa la cura e la prevenzione dell’Hiv. Cosa ci può raccontare in proposito?
È vero, molto è stato fatto, sia nella prevenzione che nella cura. Grandi campagne sul contagio e terapie gratuite, Ma non è sufficiente. L’uso del preservativo, persino tra i giovani, è osteggiato da culture maschiliste. La prostituzione è diffusa, esistono delle zone del paese praticamente abitate solo da uomini, zone militarizzate o in cui lavorano contadini stagionali. Così il contagio si estende, orizzontalmente nelle famiglie. Nell’ospedale pubblico da noi costruito e supportato, arrivano dai villaggi donne in Aids, e arrivano troppo tardi per poter curare loro e i neonati prima della nascita. Per l’Aids, ma anche per la (per noi obsoleta) malaria, si muore facilmente. Ecco perché si dice che esiste una ingiustizia fra i nostri mondi, da noi si vive e lì si muore.
Infine, è noto come il tema migranti le sia, in generale, molto a cuore. Come giudicha il recente Decreto Sicurezza?
Un decreto propagandistico che parla alla pancia della gente in parte esasperata e in parte spaventata dal nuovo e dal diverso, e che punta a conquistare voti alla Lega. Non affronta assolutamente il problema delle migrazioni, dell’accoglienza nel nostro paese, temi che invece avrebbero bisogno di un’approfondita analisi e anche di necessaria rivisitazione. Anzi, peggiora la vivibilità dei luoghi obbligando le persone a lasciare i centri di accoglienza e a riversarsi sulle strade senza prospettive.