«Truman Capote è stato, ed è, quello straordinario scrittore che rivoluzionò la letteratura americana e non, con un romanzo agguerrito e terribile come A sangue freddo. A dispetto di quel titolo, in me, come attore e come essere umano, è caldissimo il sangue quando me lo vesto addosso, quando provo a piegarni verso di lui, come canna al vento, come sarebbe piaciuto a Grazia Deledda.
Mi vesto di lui e io mi svesto, come se rimanessi nudo al suo cospetto. Rimane la mia anima lì su ogni palcoscenico. E ogni recita diventa una delle tante “preghiere esaudite”».
Con queste parole Gianluca Ferrato presenta Truman Capote – Questa cosa chiamata amore, pièce di cui è assoluto protagonista, in scena al Teatro Off/Off di Roma fino a stasera.
Lo spettacolo, dedicato a Capote, scritto da Massimo Sgorbani con la regia di Emanuele Gamba, è un omaggio ad uno dei più grandi scrittori americani del ‘900, autore di grandi classici della letteratura come Colazione da Tiffany o A sangue freddo.
È il Capote più irriverente, quello che emerge dal testo in scena nell’elegantissimo spazio di via Giulia: il Capote dandy, esibizionista, personaggio pubblico e irriverente prima ancora che grande scrittore. Ma anche l’anticonformista per eccellenza, che può permettersi di parlare con la stessa dissacrante arguzia di Hollywood e della società letteraria newyorkese, di Jackie Kennedy e Marilyn Monroe, di Hemingway e Tennessee Williams, senza mai risparmiare se stesso, i suoi vizi, le sue manie, i suoi successi e fallimenti.
Il suo stile, decadente, ironico e iconoclasta, ha segnato la letteratura degli Stati Uniti, dopo un’infanzia difficile e con l’aggravante, per l’America dell’epoca, dell’omosessualità. Capote, sotto i lustrini di feste e copertine di riviste, ha saputo raccontare tanto la frizzante società newyorkese quanto il cuore più nero del suo Paese. Il tutto con una lingua costruita alla perfezione, vero elemento distintivo della sua produzione, tanto quanto i temi di cui si è occupato nei suoi libri.
Partito dai bassifondi, lavorando come fattorino, Capote ha conosciuto il successo con i racconti, per poi imporsi definitivamente con il romanzo-verità A sangue freddo (1966), storia del massacro di una famiglia e capostipite di un nuovo tipo di giornalismo letterario. Poi alcol e droga hanno infiacchito il suo talento, a lungo cristallino e unico. Ma 30 anni dopo la sua morte, per cirrosi epatica nell’agosto del 1984, a neppure 60 anni di età, non possiamo che rimpiangere il suo genio e anche la sua candida e disperata voglia di stupire e, probabilmente, di essere apprezzato e amato.
«Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione». Se per Capote il suo talento è stato una frusta, per tutti noi è stato e resta solo piacere puro.