I-dentity Gen, pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice L’Erudita, è un libro davvero singolare nel suo genere. Scritto da Paolo Di Petta, questo lungo racconto prova a recuperare l’identità fratta di una generazione, quella degli anni ‘90, stretta tra il graduale collasso di tutte le ideologie e l’incipiente avvento delle generazioni digitali. Un’identità fratta e multipla, che viene raccontata con una narrazione che procede per tessere e ritratti, assecondando un progetto di restituzione della memoria collettiva che, proprio nella destrutturazione della storia e delle storie, trova la forma più coerente con la temperatura umana e sociale di un “passato analogico” da cui sembriamo distanti anni luce. E, a distanza di quasi trent’anni, la vita e l’identità di Greg e dei suoi amici, sembrano molto più libere e fluide di quelle che osserviamo quotidianamente nel nostro “maledetto” mondo digitale.
Ma per saperne di più, contattiamo l’autore all’indomani della fortunata presentazione napoletana.
Paolo, I-dentity Gen è un racconto che, attraverso frammenti e ritratti, restituisce l’immagine identitaria di una generazione pre-digitale. Che senso ha, oggi, recuperare quella dimensione esistenziale e generazionale?
Oggi siamo pienamente nell’età della tecnica. Lo avevano previsto i filosofi della Scuola di Francoforte, Marcuse, poi Adorno, Gunter Anders, Garimberti in Psiche e Techne. La tecnica non promuove un senso, non si pone problemi etici, non apre scenari di salvezza, non svela verità: la tecnica funziona. Siamo diventati tutti es-posti, ossia posti fuori da noi. La nostra identità non ci appartiene più, perché è condivisa in una dimensione allargata ma eterea che sostituisce al mondo reale il world wide web. Pur di sentirci in questa nuova dimensione di mondo, abbiamo perso il nostro, quello intimo, segreto. Le generazioni precedenti all’i-Generation, che io codifico i-dentity Generation, erano invece tutte centrate su uno spirito identitario forte, che ha generato le controculture del ’68 e del ’77, o alimentato i movimenti degli anni Novanta. Recuperare quella dimensione significa ricordarsi della dialettica, del dibattito, del corpo, della sessualità, del desiderio, in due parole, della relazione umana, che oggi tende ad essere virtualizzata.
Quanto è importante, secondo te, il concetto di identità nel terzo millennio?
Rimettere al centro il tema dell’identità ci ricorda la dimensione della scelta, aiuta a sviluppare autonomia di pensiero. Rischiamo di diventare gli schiavi del mito della caverna di Platone che fruiscono solo delle ombre proiettate del mondo, della sua rappresentazione. Lavorare sulla propria cultura, sul proprio pensiero aiuta a difenderci dai condizionatori di pensiero, dai trend lanciati dall’economia, dal mercato.
Il fatto che il tuo racconto proceda attraverso una destrutturazione dei segmenti memoriali, vuole forse indicare che oggi è necessario recuperare un’idea fluida e non monolitica dell’identità?
Ho sempre pensato che le narrazioni destrutturate come quella del cineasta Won Kar Wai nel film 2046 o di Eliot ne Le terre desolate, di Shepard in Motel Chronicles dessero l’opportunità al fruitore di ricucire la storia seguendo il flusso del tempo attraverso una percezione sentimentale. Frantumata l’unità della fabula, i piani temporali del prima e del dopo si alternano nella narrazione in modo scomposto, sta al lettore ricomporre. In I-dentity Gen, Greg, Gibli e gli altri personaggi sono a caccia delle proprie identità che sfuggono, si riattualizzano, si annichiliscono e una struttura narrativa frammentata si piega alle loro vite e ne veicola la liquidità. Credo che anche oggi un’identità fluida, aperta e multipla sia più adatta ad affrontare la complessità che è una cifra del tempo che viviamo, sempre più volatile e precario.
Quali risorse aveva la generazione predigitale di cui parli? Era una generazione più inclusiva di quella attuale?
In particolare la generazione raccontata è quella che ha vissuto i suoi venti-trent’anni nel periodo della caduta del Muro di Berlino, della Primavera democratica cinese di Tienanmen, che ha tentato con la Pantera di opporsi alla privatizzazione incondizionata della Scuola e dell’Università. Non ha ottenuto risultati tangibili perché la storia economica del mondo è andata avanti, ha mostrato, però, la capacità di creare reti umane, pur avendo tecnologie ancora rudimentali. Facendo leva sulla voglia di incontro e sul dibattito sociale, che hanno dato luogo all’esperienza dei centri sociali e dell’associazionismo, ha dato prova di spirito di solidarietà e inclusione verso le diversità. Erano gli anni in cui è nato l’Erasmus e l’Interrail consentiva di girare, a basso costo, tante città europee, miscelando modelli e culture. La coesistenza e l’incontro con l’altro non veniva percepita come una minaccia ma come un’ opportunità. I personaggi di I-dentity Gen rappresentano questo spirito del tempo, muovendo le proprie esperienze tra Napoli, Londra, Parigi e Bruxelles, inseguendo il proprio viaggio esistenziale.
Protagonista del tuo racconto è la periferia di una grande città. Che significato ha la periferia? Come si è trasformata l’identità delle periferie negli ultimi trent’anni?
I personaggi di I-dentity Gen vivono in una periferia metropolitana che è la città moderna. Non è quella che entra nello stereotipo di Gomorra che ne ha riverberato solo l’aspetto violento o delle conflittuali banlieue filmate da Kassovitz ne L’odio. Oggi la periferia è quella in cui viviamo quasi tutti, è la città diffusa che si estende all’esterno della cinta muraria dei centri e si dilata continuamente, attorno a stazioni Tav, a centri commerciali. A Roma circa due milioni di persone vivono in periferia, il centro appartiene alla rappresentanza e al turismo. Per questo l’umanità non è più quella povera e contadina delle borgate di Pasolini, ma è estremamente varia, ci siamo tutti dentro. Spesso tra le pieghe di cemento di questi non luoghi (di cui Traversa di I-dentity Gen ne è un simbolo), ci sono tante riserve di bellezza e di energia, come dice lo stesso Renzo Piano. Si trovano esistenze che la cultura ha aiutato a vivere, consentendo loro di risemantizzare gli spazi, dare forma ai sogni. Vi puoi trovare il Salvador, geniale pittore surrealista, che spaccia le sue opere per pagarsi vizi e piaceri, Ghibli che si sente un nichilista in un mondo che è un grande Fight Club o Nick, ex musicista, ex studente geniale, prigioniero e guardiano della Traversa come il Pianista Novecento sul suo Transatlantico.